Nato a Bologna il 5 marzo del 1922, Pier Paolo Pasolini è considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del secolo scorso. Poeta, scrittore, regista, sceneggiatore e drammaturgo, crea opere indimenticabili che inducono ancora oggi a profonde riflessioni sulle contraddizioni della società moderna e sul prezzo pagato in termini spirituali di una vita basata sul consumismo. Opere che susciteranno aspri dibattiti e polemiche nell’Italia del “boom economico“, votata all’edonismo e allo sperpero.
Oggi, in un mondo omologato e acritico, in cui l’essenza interiore dell’essere umano è stata sacrificata in nome del progresso e della produzione, i suoi pensieri possono essere considerati profetici. E rileggere uno dei nostri più geniali pensatori dell’età moderna dovrebbe costituire quasi un imperativo irrinunciabile per poter comprendere la crisi attuale e la graduale cinesizzazione della forza lavoro di cui sono soprattutto i giovani a pagarne l’elevato costo.
A causa del lavoro del padre, militare di carriera, è costretto a continui trasferimenti durante l’infanzia. Conclude gli studi a Bologna, dove si laurea in Lettere con una tesi sullo stile del Pascoli nel 1945.
Le sue estati giovanili trascorrono a Casarsa, nel Friuli, paese d’origine della madre, dove il giovane Pasolini si nasconde per evitare di espletare il servizio di leva.
A Casarsa sorge la sua passione per la poesia che compone in dialetto friulano. Di questi primi componimenti è a noi nota la raccolta “La meglio gioventù“, che vedrà la luce solo nel 1958 per la mancanza di editori disposti a pubblicarla.
Durante la Seconda Guerra Mondiale apprende la triste notizia della morte del fratello Guido, di appena diciannove anni, ucciso in un conflitto a fuoco fra milizie partigiane di differente orientamento politico, in quella che è stata una delle pagine più buie della Resistenza.
Tale lutto, avvenuto nel 1945, segna profondamente lo scrittore. Ciò che rende più difficile la rassegnazione alla morte del fratello è l’apprendere il fatto che inizialmente Guido sia sfuggito alla strage e che, già colpito, viene inseguito, trovato ed infine ucciso. Nell’opera di Pasolini si riscontrerà più volte il dolore e il trauma per questa morte che, apertamente commemorata in alcune poesie, costituirà uno dei temi più rilevanti e dolenti dei suoi due romanzi “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta“.
Nel 1947 si iscrive al Partito Comunista Italiano e comincia ad insegnare con passione.
Durante la sua militanza nel partito comunista viene in contatto con giovani contadini e assiste a scontri cruenti tra la polizia e i manifestanti. Di quegli anni di fermenti politici prenderà poi ispirazione per il romanzo “Il sogno di una cosa“, pubblicato nel 1962.
Il 15 gennaio 1949 viene allontanato dall’insegnamento ed espulso dal PCI in seguito ad una denuncia per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenni. Questo episodio lo renderà consapevole della propria diversità e a tal riguardo scriverà: «La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che altri lo accettino o no.»
Tale scandalo lo costringe ad allontanarsi dal Friuli insieme alla madre (con il padre i rapporti si erano ormai deteriorati da tempo). Si stabilisce a Roma in una borgata e, mentre la madre lavora come cameriera, lo scrittore comincia a darsi da fare per impartire lezioni private e poter condurre una vita dignitosa, prima di trovar lavoro come insegnante in una scuola privata. La borgata in cui viva gli offre la possibilità di conoscere a fondo il mondo del sottoproletariato romano di cui si può trovare traccia in alcune sue poesie ne “Le Ceneri di Gramsci” (1957), nella “Religione del mio tempo” (1961), ma soprattutto nei romanzi “Ragazzi di vita” (1955) e “Una vita violenta” (1959). I due romanzi destano molto scalpore per i temi scabrosi trattati dall’autore, ma gli recano anche molta notorietà. “Una vita violenta” ottiene il “Premio Crotone” grazie ad una giuria composta da Ungaretti, Moravia, Gadda e Bassani.
Si trasferisce successivamente in un quartiere più tranquillo di Roma e con alcuni vecchi amici d’università fonda e dirige per alcuni anni la rivista “Officina“, collaborato da importanti critici e letterati.
Inizia poi a dedicarsi al cinema, collaborando ad alcune sceneggiature e dirige numerosi film che scandalizzano l’opinione pubblica, così come accaduto con i suoi due romanzi già citati.
Processi e condanne accompagnano tutta la sua vita. Uno dei suoi film, “La ricotta“, viene sequestrato dopo la sua prima proiezione e Pasolini viene denunciato e condannato a quattro mesi di carcere per “vilipendio della religione di stato“.
Riguardo questa spiacevole vicenda l’amico Alberto Moravia così commenta nel settimanale “L’Espresso“:
«L’accusa era quella di vilipendio alla religione. Molto più giusto sarebbe stato incolpare il regista di aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana.»
Della sua immensa produzione cinematografica, a cui si dedica a partire dal 1960, scoprendo nel cinema un mezzo espressivo straordinariamente adatto alle sue ricerche stilistiche e alla sua necessità di immediata comunicazione visiva, bisogna ricordare il bellissimo “Accattone” (1961) in cui riesce a fissare in immagini quel che di triste o meraviglioso era sfuggito alla parola scritta, “Mamma Roma” (1962), “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) e “Uccellacci e uccellini” (1966).
Nei suoi romanzi si può cogliere un interessante stile sperimentale che ricostruisce con filologica precisione il linguaggio gergale usato dai ragazzi di borgata per meglio esprimere l’immedesimazione dell’autore nella vita di quegli emarginati sociali, che possono essere definiti senza esitazione i nuovi vinti del dopoguerra. Ma accanto al linguaggio gergale non pochi sono i passi poetici che denotano lo stile originale introdotto da Pasolini di cui non è difficile coglierne l’alto registro linguistico.
«… una luce più che viola era venuta a galleggiare limpida negli spazi delle strade, tra palazzo e palazzo, riverberata fin laggiù da quella specie d’incendio lontano e invisibile, dietro i colli, mentre tra un cornicione e l’altro due o tre civette svolazzavano lanciando qualche strillo.»
Le borgate romane di “Ragazzi di vita“, (1955) per il quale Pasolini subisce un processo per “oscenità”, a causa della crudezza del linguaggio, troveranno una descrizione più drammatica in quello che viene definito il suo capolavoro, “Una vita difficile” (1959).
Pasolini conduce la sua vita ai margini di una società che osserva però con implacabile attenzione, senza mai risparmiare critiche anche a quei movimenti apparentemente rivoluzionari come il ’68. Quest’ultimo viene visto dallo scrittore come una falsa rivoluzione in mano a figli di papà “profondamente conformisti.”
E della spoliticizzazione che oggi caratterizza l’Italia, in mano a populisti che cercano solamente di solleticare gli istinti più bassi del popolo per ottenere larghi consensi, Pasolini non ne sarebbe stato orgoglioso, pur avendola presagita, pur lasciando sempre uno spiraglio alla speranza di qualche sentiero che avrebbe forse apportato un miglioramento alla società.
Muore assassinato a Roma in circostanze oscure il 2 novembre del 1975, a soli cinquantatré anni.
Desidero ricordare quel grande intellettuale con una raccolta dei suoi pensieri più significativi, domandandomi ancora una volta per quale ragione non vi siano più pensatori del suo calibro. Forse, in un mondo sempre più rumoroso, dove tutti ritengono di essere opinionisti, i grandi preferiscono restare in silenzio.
Ma io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù.
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Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione) non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.
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Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da sua necessità di carattere economico, che sfugge alle logiche razionali. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno odia il potere che subisce, quindi odio con particolare veemenza il potere di questi giorni. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti. Sono caduti dei valori, e sono stati sostituiti con altri valori. Sono caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti da altri modelli di comportamento. Questa sostituzione non è stata voluta dalla gente, dal basso, ma sono stati imposti dal nuovo potere consumistico, cioè la nostra industria italiana pluri-nazionale e anche quella nazionale degli industrialotti, voleva che gli italiani consumassero in un certo modo, un certo tipo di merce, e per consumarlo dovevano realizzare un nuovo modello umano.
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Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica.
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La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.
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Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come.
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Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro. […] T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.
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Io so questo: che chi pretende la libertà, poi non sa cosa farsene.
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Chi si scandalizza è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato.
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Che cos’è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo? Che cos’è che ha trasformato le «masse» dei giovani in «masse» di criminaloidi? L’ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una «seconda» rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la «prima»: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo «reale», trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. Donde l’ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà.
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L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società.
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Per essere poeti, bisogna avere molto tempo.
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La solitudine: bisogna essere molto forti | per amare la solitudine […]
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I beni superflui rendono superflua la vita.
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Non è affatto vero che io non credo nel progresso, io credo nel progresso. Non credo nello sviluppo. E nella fattispecie in questo sviluppo. Ed è questo sviluppo che da alla mia natura gaia una svolta tremendamente triste, quasi tragica.
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Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.
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Ora, degli italiani piccolo-borghesi si sentono tranquilli davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere; perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano.
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Lei non ha capito niente perché è un uomo medio. Un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista.
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L’uomo medio dei tempi del Leopardi poteva interiorizzare ancora la natura e l’umanità nella loro purezza ideale oggettivamente contenuta in esse.
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Il nuovo fascismo non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.
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Qui in Italia non si può fare come si è fatto in America con Nixon, cioè cacciare via chi si è reso responsabile di gravi violazioni al patto democratico.
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L’Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla. Essa ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo.
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L’uomo medio di oggi può interiorizzare una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end a Ostia.
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E dopo che l’hai capito? Un uomo che ama agisce.
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Il cammino incomincia e il viaggio è già finito.
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Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto; “assurdo”, non di buon senso. (…) Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. (…) E’ come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità. (…) Volevo dire “evidenza”.
Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. (…) Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. (…) L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere. (…) Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere “di che segno sei”. E’ come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale (…) e ti annega.
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La cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. (…) E voi [Pasolini allude qui ai giornalisti, rappresentati da chi lo sta intervistando, Furio Colombo, per l’Unità] siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. (…) Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici, e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.”
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La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.
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Nel quartiere borghese c’è la pace di cui ognuno dentro si contenta, anche vilmente, e di cui vorrebbe piena di ogni sera l’esistenza.
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Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un «modello di vita» ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento.
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Supplica a mia madre (Da Poesia in forma di rosa)
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
***
La continuità tra il ventennio fascista e il trentennio democristiano trova il suo fondamento sul caos morale e economico, sul qualunquismo come immaturità politica e sull’emarginazione dell’Italia dai luoghi per dove passa la storia.
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Amo ferocemente, disperatamente la vita.
E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine.
Amo il sole, l’erba, la gioventù.
L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina.
Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò?
Lo ignoro.
(Riferendosi a New York)
È una città magica, travolgente, bellissima. Una di quelle città fortunate che hanno la grazia. Come certi poeti che ogniqualvolta scrivono un verso fanno una bella poesia. Mi dispiace non esser venuto qui molto prima, venti o trent’anni fa, per restarci. Non mi era mai successo conoscendo un paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e restare per non ammazzarmi. L’Africa è come una droga che prendi per non ammazzarti, una evasione. New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent’anni. Lo capii appena arrivato. Arrivai da Montreal, con il treno. Scesi a un’enorme stazione affogata nel buio, una sotterranea. Non c’eran facchini e la mia valigia pesava. Eppure andavo come se fosse leggera. Mi muovevo verso una luce accecante, in fondo al tunnel c’era una luce accecante, e quando fui fuori la città mi aggredì come un’apparizione. Gerusalemme che appare agli occhi del Crociato. Non mi sentivo straniero, imparai subito a girare le strade neanche ci fossi nato: eppure non la riconoscevo. Perché nessuno ha mai rappresentato New York. Non l’ha rappresentata la letteratura: a parte le vignette di Arcibaldo e Petronilla, su New York esistono solo le poesie di Ginsberg. Non l’ha rappresentata la pittura: non esistono quadri di New York. Non l’ha rappresentata il cinema perché… Non lo so. Forse non è cinematografabile. Da lontano è come le Dolomiti, troppo fotogenica, troppo meravigliosa, e dà fastidio. Da vicino, da dentro, non si vede: l’obiettivo non riesce a contenere l’inizio e la fine di un grattacielo. Ma non è solo la sua bellezza fisica che conta. È la sua gioventù. È una città di giovani, la città meno crepuscolare che abbia mai visto. E quanto sono eleganti, i giovani, qui.
***
Hanno un gusto favoloso: guarda come sono vestiti. Nel modo più sincero, più anticonformista possibile. Non gliene importa nulla delle regole piccolo-borghesi o popolari. Quei maglioni vistosi, quei giubbotti da poco prezzo, quei colori incredibili. Non si vestono mica, si mettono in maschera: come quando da piccola ti mettevi la palandrana della nonna. E così mascherati se ne vanno, orgogliosi, coscienti della loro eleganza che non è mai un’eleganza mitica o ingenua. Ti vien voglia di imitarli e magari li imiti perché dove puoi vestirti così? A Roma? A Milano? A Parigi? Io là ho sempre paura che la gente si volti, mi guardi. Qui non ho alcun complesso, posso andarmene vestito come voglio, senza che nessuno si volti e mi guardi. Qui invece nessuno ti turba con la sua curiosità. Ieri sulla Quarantacinquesima ho visto un uomo che stava morendo. In mano aveva un pacchetto: l’ha fissato e poi l’ha scaraventato con una tale violenza che il pacchetto s’è rotto. Chissà che c’era dentro. Dopo s’è appoggiato al muro, ha messo la testa sull’avambraccio, è scivolato piano piano per terra ed è rimasto lì a piangere. Anzi a morire. Senza che nessuno si fermasse a guardarlo, neanche per offrirgli un bicchier d’acqua, un aiuto. La sera avanti, poco lontano dal Metropolitan, ho visto un vecchio disteso sul marciapiede: coperto da un plaid. Accanto gli stava un ragazzo, bello, elegante come dici tu: scarpe di cuoio perfetto, calzini leggeri, pantaloni ben tagliati, un pullover favoloso. Il vecchio stringeva sul petto la mano del giovane e il suo volto era bianco, già levigato dalla morte. La gente passava e non si fermava, qualcuno rideva. Ma è male questo? O non è male il nostro fermarsi a curiosare? Non è detto che il loro silenzio sia mancanza di pietà, forse è una forma superiore di pietà. La pietà di non avvicinarsi, non curiosare…
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La Chiesa ha fatto un patto col diavolo… un popolo degenerato, mostruoso, criminale… non ho speranze, non mi disegno un mondo futuro, tendo verso una forma anarchica.
***
[…]
Per essere poeti, bisogna avere molto tempo:
ore e ore di solitudine sono il solo modo
perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono,
vizio, libertà, per dare stile al caos.
Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte
che viene avanti, al tramonto della gioventù.
Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano,
che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.
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Il moralista dice di no agli altri, l’uomo morale solo a se stesso.
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Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto.
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Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
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La morte non è nel non potere più comunicare, ma nel non potere più essere compresi.
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Negli insegnamenti che ti impartirò io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istitutivo. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci.
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Basta ai giovani contestatori staccarsi dalla cultura, ed eccoli optare per l’azione e l’utilitarismo, rassegnarsi alla situazione in cui il sistema si ingegna ad integrarli. Questa è la radice del problema: usano contro il neocapitalismo armi che in realtà portano il suo marchio di fabbrica, e sono quindi destinate soltanto a rafforzare il suo dominio. Essi credono di spezzare il cerchio, e invece non fanno altro che rinsaldarlo.
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La Chiesa non può che essere reazionaria: non può che essere dalla parte del Potere; non può che accettare le regole autoritarie e formali della convivenza.
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Non illuderti: la passione non ottiene mai perdono. | Non ti perdono neanch’io, che vivo di passione.
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Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’ aborto , perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente.
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I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri.
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L’Italia – e non solo l’Italia del Palazzo e del potere – è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue: contaminazioni» tra Molière e il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti in folla a Ferragosto. Erano l’immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di raptus»: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti.
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Tutto si integra nell’eterno ritorno: ciò lo sanno gli umoristi, i santi e gli innocenti.
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Io avevo voglia di stare da solo, perché soltanto solo, sperduto, muto, a piedi, riesco a riconoscere le cose.
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[…] il fascismo, è spesso polemico con gli altri scrittori e, fatta eccezione il suo grande amico Pasolini e pochi altri, non esita a definire la letteratura italiana «provinciale e piccolo […]
[…] nel suo quadro “Pausa dal lavoro” un soffio di speranza nel futuro che Pier Paolo Pasolini commenta con le seguenti parole: «Le figure di dieci operai emergono bianche sui mattoni bianchi […]
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