Scrittore coraggioso e moralmente impegnato nella denuncia dei mali sempiterni che affliggono l’Italia, Leonardo Sciascia è una delle figure di spicco della narrativa italiana del ‘900.
L’uso della tecnica del romanzo poliziesco, ricorrente nei suoi romanzi, funge da pretesto per mostrare la corruzione, la mentalità mafiosa e la connivenza politica. Problematiche da non attribuirsi solamente alla Sicilia, ma a tutto il “Belpaese”, vittima di un retaggio feudale difficile da sradicare, ed in balia del malaffare. Nelle sue opere, dominate da un cupo e amaro pessimismo, che con il passare del tempo si acutizza sempre di più, Sciascia tocca in modo approfondito il torbido sistema mafioso impossibile da combattere a causa di una diffusa e complice omertà riscontrabile in qualsiasi categoria sociale.
Secondo lo scrittore la diffusione della mafia non si radica, come comunemente pensato, dove lo Stato è assente o presenta dei segni tangibili di debolezza, ma s’insinua proprio dentro di esso sfruttandolo e dominandolo grazie a quel silenzio omertoso dei più che, pur di condurre una vita tranquilla, preferisce restare silente dinnanzi alle ingiustizie ed alle storture di quel sistema. Chi tace, dunque, di fronte a palesi sopraffazioni, si rende complice della mafia, pur non facendone ufficialmente parte, sebbene lo scrittore ritenga che la lotta più efficace alla mafia si debba attuare «nel nome del diritto, senza stati d’assedio, dando al cittadino la sua sicurezza», e aggiunge: «La democrazia non è impotente a combattere la mafia. O meglio: non c’è nulla nel suo sistema, nei suoi principi che necessariamente la porti a non poter combattere la mafia, a imporle una convivenza con la mafia. Ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia. Se al simbolo della bilancia si sostituisce quello delle manette – come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano – saremmo perduti irrimediabilmente».
Il suo pensiero si è rivelato profetico e a nulla sono valsi i suoi tentativi di far comprendere a molti l’importanza di un’educazione culturale che si prefigga come scopo fondamentale quello di comprendere i propri diritti e difenderli affinché quell’antico fenomeno mafioso fosse estirpato. E se qualche voce isolata si leva contro un sistema ormai profondamente consolidato, è la maggioranza stessa dei cosiddetti onesti a non prestarle ascolto e a suggerire di tacere su determinate tematiche, che si tratti di piccole o grandi ingiustizie quotidiane.
I cosiddetti eroi che si muovono all’interno dei suoi romanzi, possono essere considerati dei “disadattati” che lottano per costruire un mondo diverso, rigettando coraggiosamente il compromesso ed il silenzio, pur amaramente consapevoli di trovarsi dinnanzi a qualcosa di molto più grande di loro e difficile da sconfiggere. Protagonisti eretici, se vogliamo usare un termine particolarmente efficace, che svolgono le loro indagini negli anfratti di una coscienza collettiva sottomessa a posizioni politico-ideologiche radicate e invigorite da consuetudini, calcoli, compromessi e retaggi culturali. Eretici perché violano le regole classiche del romanzo poliziesco in quanto la persona indagata non opera mai da sola, non viene nemmeno isolata, ma è sostenuta da una densa e spesso insormontabile rete di complicità. Il silenzio su azioni altrui che ledono la comunità, per timore di conseguenze spiacevoli o per salvaguardare i propri interessi, è complicità ed è una pratica purtroppo molto diffusa. Gli eroi di Sciascia ben rappresentano la personalità schietta e onesta dello stesso scrittore che, in un’aria irrespirabile di inespugnabile omertà, affronta con coraggio temi particolarmente scottanti nel periodo in cui vive. E lo fa non solo attraverso i suoi romanzi più noti, ma anche con un’intensa produzione saggistica oggi scivolata misteriosamente nel dimenticatoio, così come accaduto con Pasolini, Moravia ed altri intellettuali di simil spessore.
Nato l’otto gennaio del 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento, Leonardo Sciascia proviene da una famiglia umile che però considera di primaria importanza l’istruzione dei propri figli e sin da bambino il futuro scrittore riceve molti stimoli positivi che accendono in lui una fervente passione per la lettura.
Conseguito il diploma magistrale, svolge la professione di maestro fino al 1957.
Durante gli anni della giovinezza viene in contatto con intellettuali del calibro di Vitaliano Brancati, suo maestro, si accosta all’antifascismo e s’immerge nella letteratura francese e nordamericana che influenzerà notevolmente la sua formazione culturale.
Viaggerà molto e cercherà di conoscer meglio altre culture sviluppando così una visione della vita non limitata alla realtà italiana che lo condurrà ad effettuare dei paragoni costruttivi affinché l’Italia possa uscire da quello stagnante letame che spinge ad isolare e ad allontanare volontariamente tutte le voci dissenzienti.
Così scriverà infatti nel romanzo che gli recherà più notorietà, “Il giorno della civetta“, pubblicato nel 1961: «Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche: mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso».
Il romanzo è destinato a suscitare scalpore. Fino a quel momento della mafia se ne parlava molto poco ed in modo vago, ma soprattutto, quando si pronunciava tale parola, la maggioranza si riferiva ad un fenomeno folkroristico tipicamente siciliano e la tendenza a minimizzarlo da parte delle istituzioni, della politica e della chiesa era un atteggiamento diffuso. Sciascia, consapevole del ruolo assegnato ad ogni scrittore, che non deve limitarsi al mero intrattenimento, ma deve tramutarsi in strumento di conoscenza, riesce attraverso la sua opera a far comprendere che la mafia è un problema da analizzare con molta attenzione e che non investe solamente quella regione italiana, ma è un sistema che si è già incancrenito in tutto il paese. Così afferma Sciascia riguardo la missione di scrivere: «Lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità, anche quando la verità – quella vera, assoluta, oggettiva – si trova in fondo ad un pozzo». È il primo scrittore a sottolineare che il problema della mafia riguarda tutta l’Italia e non risparmia critica alcuna nel modus operandi delle istituzioni per sconfiggerne il sopravvento. Secondo Sciascia «la mafia è un “sistema” che contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel “vuoto” dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma “dentro” lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta».
Nonostante i viaggi compiuti frequentemente, a differenza di altri intellettuali siciliani, Sciascia non lascerà mai la Sicilia.
La sua vita viene segnata profondamente dal suicidio del fratello Giuseppe nel 1948. Sarà il matrimonio sereno con Maria Andronico, con cui convola a nozze quattro anni prima di quella tragedia, e da cui Sciascia avrà due figlie, il suo rifugio a quello sconvolgimento traumatico che accompagnerà tutta la sua vita.
Il suo esordio in campo letterario avviene con una raccolta di poesie e la dirigenza della “Galleria” e “Quaderni della Galleria“, riviste antologiche di approfondimento letterario ed etnologico. Ma la sua vera vocazione è quella di narratore e saggista dove riesce ad esprimere l’istanza polemica e la denuncia sociale che gli sta a cuore usando uno stile limpido e realista. Sciascia non si limita però solamente alla denuncia, ma analizza anche i cambiamenti già in corso in quel periodo raccontando l’evoluzione della mafia, dapprima prettamente agraria, poi edilizia e imprenditoriale. Una mafia differente da quella odierna che vede Cosa Nostra ormai sottomettere ogni settore.
https://www.youtube.com/watch?v=CaKGX_Q5dyU
Con il già menzionato romanzo “Il giorno della civetta”, Sciascia dà vita ad una serie di gialli in cui si mescolano vicende mafiose e corruzione politica. A questo genere appartengono anche “A ciascuno il suo” (1966), “Il contesto” (1970), “Il cavaliere e la morte” (1988).
Un altro filone della sua narrativa è quello che prende spunto da documenti storici o da fatti di cronaca e che danno vita a romanzi come “Il consiglio d’Egitto” (1963), “La scomparsa di Majorana” (1975) e “La strega e il capitano” (1986).
La sua partecipazione alla realtà politica italiana è documentata da “L’affaire Moro” (1978) e dalla “Relazione sul caso Moro” in cui cerca di analizzare i cosiddetti “Anni di Piombo“.
Alla fine degli anni ’70 si trasferisce a Palermo in una casa colma di libri e fa ritorno ogni estate a Racalmuto per dedicarsi alla scrittura.
Il suo entusiasmo iniziale nella possibilità di sconfiggere quel problema che attanaglia l’Italia si smorza ogni giorno di più di fronte ad una maggioranza silenziosa o disinteressata.
Eletto consigliere comunale a Palermo nelle liste del Partito Comunista Italiano, nel 1975, a causa di dissensi con i vertici del partito e della sua avversione al “compromesso storico”, rassegna le sue dimissioni e da tale delusione nascerà un racconto che prende a modello il capolavoro “Candido o l’ottimismo” di Voltaire, uno dei massimi ispiratori del suo pensiero. “Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia” viene pubblicato nel 1977, quando Sciascia è già uno scrittore particolarmente stimato.
Si reca frequentemente a Parigi, accrescendo la sua conoscenza della cultura francese, dallo scrittore considerata un fondamentale punto di riferimento.
Nel 1979, dopo aver ricevuto la proposta di candidatura da parte del Partito Radicale Italiano viene eletto sia al Parlamento europeo che alla Camera. Alla fine sceglie Montecitorio, dove resterà fino al 1983 per dedicarsi prevalentemente ai lavori della commissione d’inchiesta sul rapimento Moro. A causa di nuovi contrasti lascia definitivamente l’attività politica, senza tuttavia smettere di osservare attentamente gli eventi politico-giudiziari, in particolar modo quelli riguardanti la mafia. Nel 1987 appare un suo articolo nel “Corriere della Sera” sui professionisti dell’antimafia in cui non esita ad asserire che in Sicilia, uno dei modi più veloci per far carriera nella magistratura, è quello di partecipare a processi di stampo mafioso. Fino alla morte, avvenuta a Palermo il 20 novembre del 1989, il suo forte impegno nel dibattito culturale e politico, non solo nell’ambito italiano ma anche su scala europea, è particolarmente incisivo.
Indimenticabili i suoi studi su Luigi Pirandello e la schietta denuncia dei legami tra mafia e politica che rendono la sua opera di estrema attualità e di cui una rilettura sarebbe doverosa, senza forse mai abbandonare la speranza che qualcosa possa cambiare. Speranza che lo scrittore perde negli ultimi anni della sua vita pur non smettendo mai di scrivere e di denunciare i mali che affliggono la società italiana.
La sua carriera narrativa si chiude infatti con la sua morte ed ancora permane la domanda di cosa avrebbe scritto oggi se fosse stato ancora vivo in questo silenzio assordante in cui di quella voce coraggiosa dello scrittore di “Porte aperte” (1987) e di una “Storia semplice“ (1989), se ne sente la mancanza. Pochi mesi prima di morire, Sciascia opera una raccolta dei suoi articoli più significativi dando a tale sintesi della propria attività giornalistica il titolo “A futura memoria“, come se già avesse compreso il valore profetico dei suoi scritti. Considerare la sua produzione letteraria una mera indagine sulla mafia e sulla politica è riduttivo; Sciascia si serve delle sue opere per porre in evidenza le varie sfaccettature del potere e della giustizia facendo sì che nel lettore, attraverso romanzi destinati al grande pubblico per la semplicità di uno stile lucido e concreto, sorgano degli interrogativi su tematiche considerate “impegnate”.
Libri dunque alla portata di tutti e che riescono a far riflettere su quel potere, mafioso, clericale e politico, che s’insinua dentro una nazione distorcendo l’informazione e uccidendo il libero pensiero. Un potere pervasivo ed inquietante su cui Sciascia cerca di renderci consapevoli. Ma non solo il potere viene scandagliato da questo straordinario scrittore. Un altro nodo cruciale su cui il nostro indirizza la sua attenzione è quello della giustizia. Se di vera giustizia si tratta o se semplicemente è uno strumento del potere. Dilemmi particolarmente presenti in particolar modo nel suo romanzo più noto “Il giorno della civetta” nel rapporto tra il capo della mafia, don Mariano Arena, e il capitano Bellodi, rappresentante dello Stato e non avvezzo al compromesso.
Ciò che risalta maggiormente nei dialoghi tra i due nemici è la stima che don Mario Arena nutre nei confronti del capitano. Una stima che il protagonista non riscontra invece nell’ambiente ecclesiastico e nelle istituzioni da lui avvertite come nemiche e che guardano al capitano con diffidenza e odio. Per approfondire ulteriormente il pensiero di Sciascia è consigliabile leggere anche “Todo modo“, pubblicato nel 1974 e osteggiato dalla Chiesa, dove il potere viene rappresentato da un perfido e amorale prete di nome don Gaetano.
Sciascia è uno scrittore da rileggere e da rivalutare. Ma ciò non credo avverrà. Scomodo lo è stato quando era in vita, e oggi lo sarebbe ancor di più, invasi, forse oggi più di ieri, da ominicchi, ruffiani e quaquaraquà che avvelenano quotidianamente la nostra vita.
Di seguito una raccolta di alcuni suoi pensieri più significativi.
È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia un cretino. […] e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini.
***
Un’idea morta produce più fanatismo di un’idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte.
***
Ce ne ricorderemo, di questo pianeta.
***
Credo che se sono diventato un certo tipo di scrittore, lo devo alla passione antifascista. La mia sensibilità al fascismo continua ad essere assai forte, la riconosco ovunque ed in ogni luogo, persino quando riveste i panni dell’antifascismo, e resto sensibile all’eternamente possibile fascismo italiano. Il fascismo non è morto. Convinto di questo, sento una gran voglia di combattere, di impegnarmi di più, di essere sempre più deciso e intransigente, mantenere un atteggiamento sempre polemico nei confronti di qualsiasi potere.
Quando tra gli imbecilli ed i furbi si stabilisce una alleanza, state bene attenti che il fascismo è alle porte.
***
Certo nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli. L’infelicità è una condizione necessaria all’intelligenza.
***
Essere comunista era insomma, per Candido, un fatto quasi di natura: il capitalismo portava l’uomo alla dissoluzione, alla fine; l’istinto della conservazione, la volontà di sopravvivere, ecco che avevano trovato forma nel comunismo. Il comunismo era insomma qualcosa che aveva a che fare con l’amore, anche col fare all’amore: nel letto di Paola, in casa del generale. Don Antonio questo lo capiva e, generalmente e genericamente, lo approvava; ma riguardo a sé, al suo essere comunista, aveva idea diversa. «Un prete che non è più prete» diceva «o si sposa o diventa comunista. In un modo o nell’altro deve continuare a stare dalla parte della speranza: ma in un modo o nell’altro, non in tutti e due i modi».
***
Sai cos’è la nostra vita? La tua e la mia? Un sogno fatto in Sicilia. Forse stiamo ancora lì e stiamo sognando.
***
«La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità».
***
Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…
***
Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. ‘In Sicilia le nevicate sono rare’ pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato.
“Mi ci romperò la testa” disse a voce alta.
***
I siciliani – dice il Di Castro – generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. D’altra parte, sono obbedienti alla Giustizia, fedeli al Re e sempre pronti ad aiutarlo, affezionati ai forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli a buon fine si trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque può agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano nati per servire. Ma sono di incredibile temerarietà quando maneggiano la cosa pubblica e allora agiscono in tutt’altro modo… E prima aveva avvertito: la Sicilia è stata fatale a tutti i suoi governanti; e la maggior parte di essi ha lasciato sepolta in quel Regno la reputazione in modo tale che nemmeno nella posterità ha potuto mai più risorgere.
***
La nostra giornata è fatta, come tutta la vita, di misteriose rispondenze, di sottili collegamenti.
***
Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. Soltanto l’intelligenza, l’intelligenza che è anche «leggerezza», che sa essere «leggera», può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità.
***
«La mia terra è sui fiumi stretta al mare», dice Quasimodo. Parla della Sicilia, ma la sua memoria più vivida ne è il mare di Siracusa, la foce dell’Imera, i «pianori d’Acquaviva dove il Platani rotola conchiglie». Ma la mia terra, la mia Sicilia, non ha fiumi; e dal mare è lontana come se fosse al centro di un continente.
***
Io ho una certa pratica del mondo: e quella che diciamo l’umanità e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini, i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più in giù: agli ominicchi che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora di più: i pigliainculo che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…
***
Ad un certo punto della mia vita ho fatto dei calcoli precisi: che se io esco di casa per trovare la compagnia di una persona intelligente, di una persona onesta, mi trovo ad affrontare, in media, il rischio di incontrare dodici ladri e sette imbecilli che stanno lì, pronti a comunicarmi le loro opinioni sull’umanità, sul governo, sull’amministrazione municipale, su Moravia.
***
Ha le sue ironie anche la morte.
***
Cattolici per modo di dire, mai conosciuto in vita mia, qui, un cattolico vero: e sto per compiere novantadue anni… c’è gente che in vita sua ha mangiato magari una mezza salma di grano maiorchino fatto ad ostie: ed è sempre pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e un colpo a lupara alle reni di uno in buona salute.
***
Perché il sistema consente di arrivare al potere col disprezzo; ma è l’iniquità, l’esercizio dell’iniquità, che lo legittima.
***
Occorre liberare questo stato da coloro che lo detengono.
***
Il compromesso storico non è stato altri che perpetrare la corruzione democristiana con il rigore comunista.
***
Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro.
***
Anche le cose vere gridate dagli altoparlanti cominciano a suonare come menzogne.
***
È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui: non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre. Bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso.
***
Soltanto i vivi intelligenti possono scomparire senza lasciar traccia.
***
Majorana aveva quel che nessun altro al mondo ha; sfortunatamente gli mancava quel che invece è comune trovare negli altri uomini: il semplice buon senso.
***
Se tu cambi stato, e ritieni di toccare la ricchezza e la felicità, ecco che il dolore, la vergogna, la morte più velocemente ti raggiungono.
***
Il più grande difetto della società italiana è quello di essere senza memoria. Francesco Lanza è morto cinquanta anni fa. Ho cercato di farlo rileggere, facendo pubblicare da Sellerio, con la prefazione di Italo Calvino, i Mimi, ma il libro è andato così così. Gli italiani ancora ignorano questo scrittore che si può considerare un piccolo classico, ed è oltretutto uno scrittore molto divertente.
***
L’aspetto peggiore della morte non è tanto il non esserci quanto il fatto che altri daranno una interpretazione delle tue parole e della tua opera.
***
Non c’è nulla di più falso che il proclama di Mussolini secondo cui la Sicilia era fascista fino al midollo. La Sicilia non era per niente fascista. Naturalmente la gente si iscriveva al fascio, andava alle adunate e gridava «Duce! Duce!», ma senza crederci molto. Qui è così per ogni idea. Allo stesso modo si spiega la refrattarietà alla Chiesa cattolica. Si osservano i riti, la messa di mezzogiorno e tutte le regole, ma senza crederci intimamente.
***
Non si arriverà mai a niente di perfetto, di giusto e di affatto libero, in materia di organizzazione politica e sociale, ma che occorra vivere e lottare come se si fosse convinti di arrivarci.
***
Il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile. Crede che la difficoltà sia profondità.
***
È una cosa talmente semplice fare all’amore… È come aver sete e bere. Non c’è niente di più semplice che aver sete e bere; essere soddisfatti nel bere e nell’aver bevuto; non aver più sete. Semplicissimo.
***
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web, quindi considerati di pubblico dominio e appartenenti a google e a youtube. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo lacapannadelsilenzio@yahoo.it e saranno immediatamente rimossi.
[…] soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte. Leonardo Sciascia *** Ci saranno sempre degli eschimesi pronti a dettare le norme su come si devono comportare gli […]
[…] anche la lettura di “Natale a Regalpetra“, un racconto breve di Leonardo Sciascia che raccoglie il ricordo di come si trascorreva il Natale in un povero paese di campagna siciliano. […]