«Il Natale è per sempre, non soltanto per un giorno, l’amare, il condividere, il dare, non sono da mettere da parte come i campanellini, le luci e i fili d’argento in qualche scatola su uno scaffale. Il bene che fai per gli altri è bene che fai a te stesso.»
Norman Brooks
Nella capanna non si celebra un “Natale” di sfrenato consumismo, di decadente corsa affannosa ai regali, di abiti rossi o di abeti usa e getta. Ancora oggi mi giunge priva di senso la trasformazione di un giorno scelto per simboleggiare la nascita di Gesù di Nàzareth, di cui a tutti è noto il pensiero, ad una mera baldoria di cenoni e regali. Si festeggia forse il “compleanno” di una persona qualsiasi? E per scambiarsi regali e auguri di serenità è necessario attendere quella data?
Diciamolo chiaramente: il Natale è diventato solamente un giorno qualsiasi per mangiare esageratamente e trascorrere la giornata giocando a carte. Una data simbolica, sorta per riflettere sul messaggio di un Uomo rivoluzionario e spirituale, in un giorno di sperperi degni del più becero consumismo. Mi dissocio vivamente da questo modo di ricordare quella nascita e fatico a comprendere gli ingorghi automobilistici nei giorni che precedono tale festività, ben descritti attraverso gli occhi del bue e dell’asinello che dal paradiso degli animali conducono un viaggio immaginario per poter osservare il modo di festeggiare la nascita di Gesù. Del racconto scritto da Dino Buzzati, “Milano nostra” ne pubblico uno stralcio, quello da me ritenuto più significativo.
«[…]Si affacciarono, più in là, a un’altra finestra. Anche qui, gente che, trafelava, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore.
Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all’altra portando spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi, altri scatole altri fiori altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione ansia fastidio confusione e una terribile fatica. Dappertutto lo stesso spettacolo. Andare e venire, comprare e impaccare spedire e ricevere imballare e sballare chiamare e rispondere e tutti correvano tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando. – Mi avevi detto – osservò il bue – che era la festa della serenità, della pace.
– Già – rispose l’asinello. – Una volta infatti era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi… Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali.
Il bue tese le orecchie.
Per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale. Un brusio che riempiva la città.
– Ma ci credono? – chiese il bue – Lo dicono sul serio? Vogliono davvero tanto bene al prossimo?
L’asinello tacque.
– E se ci ritirassimo un poco in disparte? – suggerì il bovino. – Ho ormai la testa che è un pallone… Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?
– No, no. È semplicemente Natale.
– Ce n’è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso.
– E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena.
– E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano.
– Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano.
– E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle hanno una vita lunga.
– Ho idea di no – disse l’asino – c’è poca aria di stelle, qui. Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c’era un soffitto di caligine e di smog[…]».
Non credo sia necessario aggiungere altro. Ognuno celebri questa ricorrenza come desidera meglio farlo. Al formale scambio di auguri e alla frenesia di chi vede in tale data solo un momento per fingere che vada tutto bene, che le guerre siano finite e la fame sia stata sconfitta e che, quindi, il sogno cristiano si sia avverato, io preferisco ricordare questo giorno in compagnia di poeti, pittori, scrittori, registi e musicisti che hanno tratto ispirazione dal messaggio di Gesù per donarci le loro opere.
Senza addentrarmi in approfondimenti sterili sul significato “pagano” della data scelta e del modo spesso offensivo di celebrare la nascita di una figura storica che sicuramente non avrebbe amato essere ricordato una volta l’anno con frasi retoriche e ipocriti auguri, preferisco perdermi nelle opere d’arte a lui dedicate che restituiscono in parte quel significato di condivisione e rinascita forse mai veramente colto.
Qualche giorno fa ho introdotto tale ricorrenza con la lettura di alcuni passi del capolavoro di Charles Dickens “Un canto di Natale“.
Adesso nutro il desiderio di continuare ad operare una selezione di brani, poesie, musiche e dipinti creati per afferrare la magia del Natale e dimenticare per un po’ quel modo di celebrare un evento che dovrebbe indurci solamente a riflettere sul messaggio lanciato da un Uomo straordinario agli occhi di tutti, credenti e non. E non solo a Natale.
La prima opera da me selezionata è l’incantevole storia de “Lo Schiaccianoci“, magistralmente interpretata da Pëtr Il’ič Čajkovskij che ideò quel capolavoro musicale a tutti noi noto tratto dal racconto “Schiaccianoci e il re dei topi” di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Il racconto è stato poi reinterpretato da Alexandre Dumas.
Si tratta della storia di una giovane russa, Clara (così viene chiamata nel racconto di Dumas), che la sera della vigilia di Natale riceve in dono da un eccentrico giocattolaio amico di famiglia, una misteriosa bambola-Schiaccianoci di legno con le sembianze di un soldato. L’uomo domanda alla ragazzina di prendersene cura e di non lasciarsi influenzare dalla sua bruttezza.
Il fratellino di Clara, geloso del regalo ricevuto dalla sorella, lo scaraventa a terra e lo rompe. Ma Drosselmeyer, questo il nome dell’uomo che le ha donato lo schiaccianoci, riesce a ripararlo ed a restituire così il sorriso alla ragazzina.
Durante la notte Clara viene assalita da incubi che la costringono a difendersi da fantasmi e da topi. Sarà lo Schiaccianoci a trarla in salvo, assumendo le sembianze di un bellissimo principe, e che la recherà con sé in magico viaggio. D’incanto, la stanza della ragazza si trasforma in un bosco incantato in cui viene accolta da una dolce danza di fiocchi di neve.
Il principe racconta a Clara la storia della sua vita e, così, la ragazzina apprende che è stato un malefico sortilegio a tramutarlo in schiaccianoci. Le narra poi del suo viaggio per il mondo e compaiono tutti i personaggi da lui incontrati.
Clara viene poi accolta nel castello dalla Fata Confetto.
E subito ha inizio una grande festa che si conclude con un suggestivo ballo di fiori.
Il sogno svanisce e Clara si sveglia nella casa paterna stringendo lo Schiaccianoci tra le braccia. Ma qualcosa è cambiato dentro di lei. Čajkovskij ha donato una partitura sublime al racconto di Hoffmann e, con il passare del tempo, la sua opera è stata oggetto di riletture sempre più moderne e attuali.
Per quanto riguarda la letteratura, oltre al già citato “Un canto di Natale“, ho selezionato anche “Sogno di Natale” di Luigi Pirandello in cui l’autore sogna d’incontrare un affranto Gesù alla ricerca di un’anima in cui rivivere.
«Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l’impressione d’una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l’anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors’anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.
Era festa dovunque; in ogni chiesa, in ogni casa; intorno al ceppo, lassú; innanzi a un Presepe, laggiú; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori… E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte.
E mi pareva di andare frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: «Buon Natale!» e sparivo…
Ero già entrato cosí, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrare Gesú errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo Natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul manto e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d’un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.
Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l’immagine di lui m’attrasse cosí, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m’arrestai.
Subito allora Gesú si sdoppiò da me, e proseguí da solo anche piú leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.
Sparirono a un tratto le vie della città: Gesú, come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore, sorvolava su un’alta siepe di rovi, che s’allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant’egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
Dall’irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d’una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell’immenso arco dell’orizzonte. Si mise Gesú per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesú si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d’una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case piú umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari, non dava pretesto a gozzoviglie.
– Non dormono… mormorava Gesú, e sorprendendo alcune rauche parole d’odio e d’invidia pronunziate nell’interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l’impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: – Anche per costoro io son morto…
Andammo cosí, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesú innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch’ero la sua ombra per terra, non mi disse: – Alzati, e accoglimi in te.
Voglio entrare in questa chiesa e vedere.
Era una chiesa magnifica, un’immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi ed’oro alla vôlta, piena d’una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava sul’altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d’incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d’argento splendevano a ogni gesto le brusche d’oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.– E per costoro – disse Gesú entro di me – sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.
Uscimmo dalla chiesa, e Gesú, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:
– Cerco un’anima, in cui rivivere. Tu vedi ch’io son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare anche la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi di allettare il tuo stolto soffrire per il mondo… Cerco un’anima in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà.
– La città, Gesú? – io risposi sgomento. – E la casa e i miei cari e i miei sogni?
– Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.
– Ah! io non posso, Gesú… – feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito,lasciandomi cader le braccia sulla persona.
Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l’impressione sul mio capo inchinato, m’avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. È qui, è qui, Gesú, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa».
Tra le poesie più significatiche ho selezionato “Natale” di Giuseppe Ungaretti, scritta nel 1916, durante un breve periodo di licenza del poeta nel corso della Prima Guerra Mondiale. La poesie mette in rilievo la sua tristezza per gli orrori visti durante la guerra ed il desiderio di volgere lo sguardo dentro di sé, lontano dai rumori e dalla folla natalizia.
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
E non si può forse considerare un’opera d’arte la canzone “Stille Nacht” di origine austriaca che risale al 1800 e tradotta in centoquaranta lingue?
Vorrei anche ricordare “La favola di Natale” di Giovannino Guareschi, scritta a Sanbostel, nel campo di concentramento in cui lo scrittore era internato. La notte di Natale del 1944 tale favola venne rappresentata e accompagnata dalla musica composta da Arturo Coppola, compagno di prigionia di Guareschi, che ne diresse anche l’orchestra e il coro degli altri prigionieri del campo. La rappresentazione si svolse dentro una fredda e umida baracca e lo scrittore raccontò, alla fine della guerra, che «Per l’umidità i violini si scollavano, perdevano il manico» e «Le voci faticavano a uscire da quella fame vestita di stracci e di freddo.» Tuttavia servì a donare per un po’ il sorriso a tutti coloro che assistettero a tale evento.
«C’era una volta un prigioniero. No: c’era una volta un bambino. Meglio ancora: c’era una volta una Poesia. Anzi, facciamo così: C’era una volta un bambino che aveva il papà prigioniero. E la Poesia? – direte voi – cosa c’entra? La Poesia c’entra perché il bambino l’aveva imparata a memoria per recitarla al suo papà, la sera di Natale. Ma, come abbiamo spiegato, il papà del bambino era prigioniero in un paese lontano lontano. Un paese curioso, dove l’estate durava soltanto un giorno e, spesso, anche quel giorno pioveva o nevicava. Un paese straordinario, dove tutto si tirava fuori dal carbone: lo zucchero, il burro, la benzina, la gomma. Un paese senza l’uguale, dove tutto quello che è necessario all’esistenza era calcolato con così mirabile esattezza in milligrammi, calorie, erg e ampère, che bastava sbagliare un’addizione – durante il pasto – per rimanerci morti stecchiti di fame”. Alla sera della Vigilia il bambino continuava a fissare una sedia vuota: quando i papà non ci sono il Natale non è più né felice né spensierato. Allora Albertino, così si chiamava, recitò la sua poesia: “Din don dan la campanella questa notte suonerà e una grande, argentea stella su nel ciel s’accenderà”. Alla fine la finestra si spalancò e la Poesia, trasformata in un uccellino, volò via. “Dove vuoi che ti porti?” domandò il Vento. ”Portami nel Paese dove è adesso il papà del mio bambino”, disse la Poesia. “Stai fresca!” rispose il Vento, “Perché prendano anche me e mi mandino al lavoro obbligatorio a far girare le pale dei loro mulini a vento! Niente da fare: scendi! “ Ma la Poesia tanto pregò che il Vento acconsentì a portarla almeno alla frontiera. “Faceva tanto freddo che la povera poesiola aveva tutte le rime gelate e non riusciva neppure a spiccare il volo. ”Dove vai?” le chiese un vecchio il quale, con uno stoppino legato in cima a una pertica, cercava invano d’accendere qualche stellina nel cielo nero.“Al campo di concentramento”, rispose la Poesia senza fermarsi.“Ohimè”, sospirò il vecchio, “internano anche la Poesia, adesso?”. Alla fine il coraggio e l’amore di Albertino gli faranno riabbracciare il suo adorato papà».
Propongo anche la lettura di “Natale a Regalpetra“, un racconto breve di Leonardo Sciascia che raccoglie il ricordo di come si trascorreva il Natale in un povero paese di campagna siciliano.
«– Il vento porta via le orecchie – dice il bidello.
Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa.
I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni.
L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo
Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale: tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto: un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo.
Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente.
In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca: “La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù”.
Alcuni hanno scritto, senza consapevole amarezza, amarissime cose: “Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa”.
Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre pagandogli il biglietto del cinema… Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato.
“La mattina del Santo Natale – scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto”.
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre “per fare la spesa”. Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
“E così ho passato il Santo Natale”».
La celebre poesia di Salvatore Quasimodo, intitolata semplicemente “Natale“, esprime la tristezza del poeta nell’evidenziare il contrasto tra il sentimento di pace che infonde la vista di un presepe e la cruda realtà di uomini che si scagliano sempre contro altri uomini, indifferenti al sacrificio di un Uomo che sacrificò la propria vita per lanciare un messaggio rivoluzionario destinato a restare inascoltato.
Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?
In un mondo che ancora si “pregia” di non aver sconfitto la povertà ed esalta un Gesù la cui lotta pacifica e rivoluzionaria per l’uguaglianza gli costò una fine atroce, ho inserito i pensieri della “miserabile” Cosetta di Victor Hugo che sogna una bambola.
«Quella sera, siccome era la vigilia di Natale e gli abitanti di Montfermeil si sarebbero recati a messa, i negozi eran tutti illuminati da candele che ardevano in imbuti di carta. Di fronte all’osteria dei Thenardier c’era una con una mostra ricca di perline, di oggettini di vetro e di metallo dorato.
In prima fila però il negoziante aveva posto una bellissima bambola alta più di mezzo metro, vestita di un abito di seta rosa; aveva spighe d’oro tra i capelli veri e due begli occhi di smalto. Tutto il giorno quella meravigliosa bambola era stata esposta all’ammirazione dei bimbi, ma nessuna mamma era ricca abbastanza per regalarla alla sua figlia.
Mentre usciva dall’osteria, per quanto fosse tanto triste, Cosetta non potè far a meno di alzare gli occhi verso la bambola dei suoi sogni, «la signora» come la chiamava in cuor suo.
Si fermò incantata: non aveva ancora veduto la bambola da vicino; quella bottega le sembrava un palazzo e la pupattola una visione.
Erano la gioia, lo splendore, la ricchezza, la felicità che le apparivano! Cosetta pensava che solo una regina, o almeno una principessa, potevano possedere una cosa come quella.
Guardando la bella veste rosa, i lisci capelli setosi diceva tra se: Come deve essere felice quella bambola!
Non poteva più distogliere gli occhi da quella vetrina e più guardava più rimaneva estasiata: credeva di vedere il paradiso.
Le altre bambole dietro quella grande le sembravano fate e il padrone che si muoveva nella bottega le sembrava un potente re. »
Nella letteratura dedicata al Natale spicca anche un altro “Racconto di Natale” di Dino Buzzati che mostra un’analisi dell’egoismo umano in un giorno in cui tutti cercano Dio, ma nessuno è disposto a condividerlo.
«Tetro e ogivale è l’antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d’inverno. E l’adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c’è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale – ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, il carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l’arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L’arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l’arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l’inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. “Chi bussa alle porte del Duomo” si chiese don Valentino “la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?” Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata di vento entrò un poverello in cenci.
“Che quantità di Dio! ” esclamò sorridendo costui guardandosi intorno- “Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori.
Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. “
“E di sua eccellenza l’arcivescovo” rispose il prete. “Serve a lui, fra un paio d’ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore.”
“Neanche un pochino, reverendo? Ce n’è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!”
“Ti ho detto di no… Puoi andare… Il Duomo è chiuso al pubblico” e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c’era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all’improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d’ore l’arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c’era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n’andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l’indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l’un l’altro e intorno ad essi
c’era un poco di Dio.
“Buon Natale, reverendo” disse il capofamiglia. “Vuol favorire?” “Ho fretta, amici” rispose lui. “Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno.”
“Caro_il mio don Valentino” fece il capofamiglia. “Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino.”
E nell’attimo stesso che l’uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.
“Ma che cosa fa, reverendo?” gli domandò un contadino. “Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?”
“Guarda laggiù figliolo. Non vedi?”
Il contadino guardò senza stupore. “È nostro” disse. “Ogni Natale viene a benedire i nostri campi.”
” Senti ” disse il prete. “Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l’arcivescovo possa almeno fare un Natale decente.”
“Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi.”
“Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì.”
“Ne ho abbastanza di salvare la mia!” ridacchiò il contadino, e nell’attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell’atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all’orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga.
Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. “Aspettami, o Signore ” supplicava “per colpa mia l’arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!”
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d’angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.
“Fratello” gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli “abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego.”
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.
“Buon Natale a te, don Valentino” esclamò l’arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. “Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?”»
Il “Natale di Martin” di Lev Tolstoj è un Natale di rinascita per un uomo solo che non ha più alcun desiderio di vivere.
« In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
– Non ho più desiderio di vivere – gli confessò. – Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati… Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi.
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All’improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c’era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: – Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L’indomani mattina Martin si alzò prima dell’alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. – Entra· disse – vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
– Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
– Non è niente – gli disse Martin. – Siediti e prendi un po’ di tè.
Riempì due boccali e ne porse uno all’ospite. Stepanic bevve d’un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po’. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
– Stai aspettando qualcuno? – gli chiese il visitatore.
– Ieri sera- rispose Martin – stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: “Guarda in strada domani, perché io verrò”.
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. – Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l’anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po’ di pane e della zuppa. – Mangia, mia cara, e riscaldati – le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: – Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. – Ecco – disse. – È un po’ liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. – Che il Signore ti benedica.
– Prendi – disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un’ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po’, vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all’altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. – Lascialo andare, nonnina – disse Martin. – Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. – Chiedi perdono alla nonnina – gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: – Te la pagherò io, nonnina.
– Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato – disse la vecchia.
– Oh, nonnina – fece Martin – se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
– Sarà anche vero – disse la vecchia – ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. – Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l’ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all’orecchio: – Martin, non mi riconosci?
– Chi sei? – chiese Martin.
– Sono io – disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
– Sono io – disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
– Sono io – ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo».
La “Festa di Natale” di Carlo Collodi parla di un bambino molto sensibile che non riesce a restare indifferente dinnanzi alla tragedia di miseria e d’abbandono vissuta da un suo coetaneo.
“La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera. Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.
Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l’Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne’ sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata. La contessa passava molti mesi all’anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de’ suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata. Finita l’ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno! Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo: «Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. Addio a domani, e dormi bene». E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d’ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.
Alberto, il fratello minore, aveva un’altra passione. La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare. Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua. E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi: «Buon giorno, Pulcinella», gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. «Buon giorno, Pulcinella.»
E Pulcinella non rispondeva.
«Buon giorno, Pulcinella», ripeteva Alberto. E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui.
«Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.»
E Pulcinella, duro!
«Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso» diceva Alberto un po’ stizzito.
E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava.
«Ma perché», gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, «ma perché se ti dico »guardami» allora mi guardi; e se ti dico »buon giorno» non mi rispondi?»
E Pulcinella, zitto!
«Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!»
E Pulcinella alzava una gamba.
«Dammi la mano!»
E Pulcinella gli dava la mano.
«Ora fammi una bella carezzina!»
E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso.
«Ora spalanca tutta la bocca!»
E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno.
«Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno».
Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno. Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui.
Indispettito!… e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba. «Povero Pulcinella!», disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, «se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone… ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio… e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d’oro e mezza d’argento.»
Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l’uso di regalare a’ suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s’intende bene, de’ loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell’Ada. Otto giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio. Luigino, com’è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato.
L’Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l’ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo.
In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni.
Intanto il Natale s’avvicinava, quand’ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c’era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia.
«Zio Bernardo, ho fame», disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l’interno della stanza terrena. Nessuno rispose. In quella stanza terrena c’era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani. «Zio Bernardo, ho fame!…», ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena.
«Insomma vuoi finirla?», gridò l’uomo dalla barbaccia rossa. «Lo sai che in casa non c’è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!» E nel dir così, quell’uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo. Allora Luigino, Alberto e l’Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo.
Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce: «Grazie… ora non ho più fame…». Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più. Alberto, per altro, non se l’era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva crogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola: «Oh come dev’essere cattivo il freddo! Brrr…». E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh come dev’esser cattivo il freddo!» si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina.
Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l’ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa. «Sor Albertino, buon giorno signoria», disse la Rosa: «quanto tempo è che non è passato dalla casa dell’Orco?»
«Chi è l’Orco?»
«Noi si chiama con questo soprannome quell’uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.»
«O il suo bambino che fa?»
«Povera creatura, che vuol che faccia?… È rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di quello zio Bernardo…»
«Che dev’essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?», soggiunse Alberto.
«Purtroppo! Meno male che domani parte per l’America… e forse non ritornerà più.»
«E il nipotino lo porta con sé?»
«Nossignore: quel povero figliuolo l’ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio».
«Brava Rosa.»
«A dir la verità, gli volevo fare un po’ di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo… ma ora sono corta a quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.» Alberto stette un po’ soprappensiero, poi disse:
«Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.»
«Non dubiti.»
Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de’ tre salvadanai.Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l’Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo. «Il tuo salvadanaio», gli disse la mamma, «è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest’anno tu hai avuto poca voglia di studiare.»
«La voglia di studiare l’ho avuta», replicò Alberto, «ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito.»
«Speriamo che quest’altr’anno non ti accada lo stesso» soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: «Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell’uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne l’uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.»
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo. »Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé l’Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola. »Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella. Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava: «Sor Alberto! sor Alberto!». Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell’andarsene, ripeté più volte:
«Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!».
Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini. Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli:
«Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo». Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d’una gualdrappa così sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani.
«Non c’è che dire», osservò la mamma, sempre sorridente «quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto… il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te».
«No, no», gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, «prima di me, tocca all’Ada.» E l’Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l’ultimo figurino. «Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!», disse l’Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola.
«Quelle scarpine sono un amore!», replicò la mamma. «Peccato però che debbano calzare i piedi d’una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!» «E ora, Alberto, vediamo un po’ come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.» «Ecco… io volevo… ossia, avevo pensato di fare… ossia, credevo… ma poi ho creduto meglio… e così oramai l’affare è fatto e non se ne parli più.»
«Ma che cosa hai fatto?»
«Non ho fatto nulla.»
«Sicché avrai sempre in tasca i danari?»
«Ce li dovrei avere…»
«Li hai forse perduti?»
«No.»
«E, allora, come li hai tu spesi?»
«Non me ne ricordo più.»
In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse: «È permesso?.»
«Avanti.» Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo. «È tuo, Rosa, codesto bambino?», domandò la Contessa.
«Ora è lo stesso che sia mio, perché l’ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi».
«E chi è quest’angelo di benefattore?», chiese la Contessa. L’ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta: «Eccolo là.»
Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare: «Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!…».
«La scusi: che c’è forse da vergognarsi per aver fatto una bell’opera di carità come la sua?»
«Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!», ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala. La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.”
Per concludere, vorrei condividere la scena finale di uno dei film diventati simboli del Natale: “La vita è meravigliosa” di Frank Capra e interpretato magistralmente da James Stewart nel ruolo di George Bailey, un uomo che, in un momento di cupa disperazione, vorrebbe suicidarsi. Ma un angelo, nelle vesti di un dolce e arzillo vecchietto, riesce a fargli ricordare tutto ciò che di bello era riuscito a costruire nella sua vita e di come sarebbe stato il mondo se lui non fosse mai nato.
E adesso buon ascolto delle canzoni più belle composte per ricordare la nascita di un Uomo speciale che ha provato, purtroppo inutilmente, a cambiare il mondo.
https://www.youtube.com/watch?v=AqimXu_5zfM
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web, quindi considerati di pubblico dominio e appartenenti a google, a youtube e ai legittimi proprietari. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo lacapannadelsilenzio@yahoo.it e saranno immediatamente rimossi.
Free Piano
This is a really good read for me, Must admit that you are one of the best bloggers I ever saw.Thanks for posting this informative article. Intersting Google ? Look this >> Google Guide
Thanks you for reading our posts, Free Piano 🙂
[…] il Natale non esistesse già, l’uomo dovrebbe inventarlo. Ci deve essere almeno un giorno […]
… [Trackback]
[…] Read More here: lacapannadelsilenzio.it/il-natale-nellarte-e-nella-letteratura/ […]
[…] corsa affannosa ai regali, agli abiti rossi, agli abeti usa e getta ne abbiamo fatto il pieno.Il Natale, da molto, forse troppo tempo, si è ridotto soprattutto ad una mera baldoria di cenoni e di […]