Con le sue straordinarie canzoni senza tempo abbiamo sognato, sorriso e anche pianto. Francesco De Gregori, spesso denominato il “Principe” della canzone d’autore italiana, per l’eleganza con cui scandaglia le innumerevoli sfaccettature dell’animo umano e per il carattere elitario dei suoi testi, possiede un peculiare talento nel comunicare con la nostra anima, grazie alla sua ineguagliabile capacità di trasfondere in musica e versi interrogativi, immagini ed emozioni che restano scolpiti nella nostra mente. D’indole schiva e riservata, ha creato testi molto originali e complessi spesso di non facile interpretazione per la ricchezza di metafore e di allegorie. Testi fortemente evocativi accompagnati da una musica quasi sussurrata, eseguita per lo più con strumenti tradizionali, che ci lascia scivolare dolcemente in mondi lontani, restituendoci immagini poetiche ed eteree.
De Gregori non ama essere definito un poeta, ma non è facile trovare il termine giusto per definire un artista di simil grandezza. Le sue non sono canzoni, ma autentiche poesie che potrebbero essere ascoltate anche senza alcun accompagnamento musicale. I suoi sono versi che cantano anche senza musica: quando si ha qualcosa di veramente importante da dire, la musica si pone in secondo piano. Anche se l’autore così commenta in una delle poche interviste concesse: «Le parole sono importanti, ma chi cerca solo quelle può trovarle nei libri. Per me l’attrattiva più grande la dà la musica. Una canzone è un ibrido, le si chiede leggerezza, può commuovere o diventare il punto di riferimento di una vita. Ti ricorda momenti. Ma basta toccare la chitarra in un modo diverso e cambia tutto»
( Vanity Fair ).
Nella sua vasta produzione troviamo canzoni intimistiche che però non rinunciano ad estendersi oltre il suo suggestivo microcosmo e abbracciano anche il contesto sociale. De Gregori racconta mezzo secolo di storia italiana, dal ’68 a oggi e lo fa con la sua inconfondibile voce nasale e le vocali aperte, inutilmente imitato da un gran numero di cantanti. Ermetico e successivamente didascalico, De Gregori, a differenza di altri cantautori, ha sempre mantenuto le distanze dalla musica commerciale e tenuto fede al suo impegno sociale con canzoni che, oltre ad essere suggestive, racchiudono la sua eterna ribellione verso un sistema che disumanizza l’uomo.
Due sono i filoni della sua poetica: uno è quello lirico-letterario e l’altro è quello etico-storico-politico. Talvolta i due filoni si riscontrano nella stessa canzone, così come accade nella bellissima e indimenticabile “Alice” (1973).
La bellezza delle canzoni di De Gregori risiede anche nel riuscire a suscitare più interpretazioni della loro lettura. Ma non importa di come vengano interpretate; ciò che veramente conta è abbandonarsi a quel fluire di parole che toccano intensamente le corde della nostra anima. Poche ritengo siano le composizioni, riferendomi al mondo della musica, che scatenano in meno di due minuti un simile scorrere di emozioni insieme alla sensazione di non essere più soli e che le nostre solitudini vengano narrate con l’uso di poche parole. E ciò avviene in qualunque periodo storico d’Italia: dal sogno rivoluzionario del ’68 all’imbarbarimento inarrestabile di questo paese iniziato negli anni ottanta e novanta.
Alice, Pablo, Irene, Hilde. “il ragazzo con i capelli rossi”, la donna cannone, sono nomi di esseri umani ormai entrati nella nostra vita. E non importa conoscere la loro storia; De Gregori, con poche parole, riesce a descrivere ciò che basta per conoscerne l’animo, sono persone con cui magari entriamo in relazione o semplicemente incontriamo per strada, sono esseri umani la cui storia appena accennata, ma che riesce a comunicare molto di più di un’accurata biografia, è anche la nostra storia.
Non è difficile riscontrare i riferimenti culturali di questo straordinario cantautore che si nutre, già in giovanissima età, della poesia del Novecento. Ma non solo della poesia. Intellettuale di sinistra, così definito per la politicizzazione delle sue canzoni, del suo ricco bagaglio culturale bisogna menzionare le letture giovanili di Pavese, Cronin, Joyce, Steinbeck e Pasolini, per quanto riguarda la letteratura, senza dimenticare Fabrizio De Andrè, Luigi Tenco, Simon & Garfunkel, Leonard Cohen ed in particolar modo Bob Dylan, a quei tempi per lo più sconosciuto in Italia. Subisce il fascino del flusso di coscienza dell’ Ulisse, e della corrente surrealista di Magritte e di Dalì. Da quel mondo visionario e poetico, il cui costrutto logico-sintattico rimanda a quella dimensione onirica che tutti conosciamo ma che difficilmente riusciamo ad esprimere con le parole, il nostro artista trae ispirazione. E lo fa con il largo uso di immagini sfocate e frasi frammentarie che seminano indizi per poi deviare dall’argomento, facendo sì che ognuno di noi, abbandonandosi alla forza evocativa delle parole e della musica riesca a dare un senso a quelle storie sospese.
Nato a Roma il 4 aprile del 1951 dal dirigente delle biblioteche vaticane Giorgio e dall’insegnante di lettere Rita Grechi, Francesco De Gregori trascorre l’infanzia a Pescara e fa ritorno a Roma con la sua famiglia alla fine degli anni Cinquanta. Frequenta il liceo classico “Virgilio“, dove vive personalmente gli anni della contestazione giovanile del ‘68. In quegli anni impara a suonare la chitarra cominciando così ad accompagnare con la musica le sue già citate letture giovanili e le traduzioni personali di canzoni popolari americane, esibendosi a soli diciassette anni al Folkstudio di Roma. Successivamente forma un gruppo con i suoi amici Antonello Venditti, Mimmo Locasciulli e Giorgio Lo Cascio, e debutta come cantante professionista nel 1972 con “Theorius Campus” (1972), LP realizzato insieme a Venditti ed in cui troviamo la sua intensa e poetica canzone “Signora Aquilone” dove già emerge il suo stile inconfondibile.
Le canzoni di Venditti, in particolare “Roma Capoccia“, ottengono un maggior successo; De Gregori non è ancora un cantautore comprensibile ai più, e forse mai lo sarà. Il duo si scioglie presto e l’artista realizza il suo primo album da solista, “Alice non lo sa” (1973), inizialmente un vero e proprio fallimento commerciale, sebbene la misteriosa Alice della canzone che dà il titolo all’album, bocciata dalla giuria del concorso Un disco per l’estate perché ritenuta di ardua comprensione, in poco tempo raccoglierà un successo destinato a crescere. Il pubblico di quel periodo si renderà presto conto di trovarsi dinnanzi ad un’innovazione della canzone italiana che, accanto ad una musica quasi defilata, ma molto originale e complessa, trova la sua maggior forza nelle parole. “Alice“, in virtù della sua visionarietà e della sua eleganza lirica, è un brano di rottura nella storia della canzone italiana.
L’anno seguente pubblica con la RCA un album semplicemente intitolato “Francesco De Gregori” con la celebre copertina dipinta da Gordon Fagetter dove troviamo ancora una volta canzoni notevolmente complesse e criptiche dalla straordinaria forza evocativa. Sebbene De Gregori dica che quell’album sia il peggiore da lui realizzato, mi sento di dissentire caldamente dal suo parere. Indimenticabili, tra le altre, la struggente “Bene” e il sognante “Cercando un altro Egitto“.
“Cercando un altro Egitto” è forse uno dei brani più ermetici del cantautore romano, ricco com’è di numerosi simbolismi non sempre facili da cogliere e che ci trascinano in una dimensione onirica non proprio paradisiaca che denuncia una società oppressiva e ingiusta da cui tutti noi vorremmo fuggire, così come San Giuseppe, rifugiatosi con la famiglia in Egitto per evitare la follia di Erode che ordina di uccidere tutti i bambini della Giudea. La ricerca di “un altro Egitto” è un sogno che in fondo si può riscontrare dentro ogni essere umano che percepisca il desiderio di distaccarsi da un mondo sovente molto rumoroso e volgare.
Osteggiato dalla RAI per la sua appartenenza politica molto vicina al Partito Comunista Italiano, si muove in anni di fermento politico e censure, e a causa soprattutto del suo brano caustico e irriverente nei confronti della televisione, “Informazioni di Vincent“, in cui sbeffeggia un’informazione falsa volta a tranquillizzare il pubblico, raccontando che tutto va bene e che non c’è alcun motivo per preoccuparsi, è considerato uno dei maggiori nemici della televisione di stato. Ma quest’ultima non tiene ancora conto del cambiamento in atto della società e dei nuovi gusti musicali che oltrepassano e quasi cancellano le canzonette leggere, incapaci ormai di incantare il nuovo pubblico.
Il successo giunge nel 1975 con “Rimmel“, l’album della consacrazione di De Gregori che contiene altre canzoni indimenticabili e un po’ più comprensibili al grande pubblico. Francesco De Gregori, da cantautore emergente amato da un ristretto pubblico giovanile d’avanguardia, entra definitivamente tra i grandi della canzone d’autore. “Rimmel” è l’LP più venduto dell’anno in Italia. Disco straordinario, contiene molti brani dolceamari divenuti ormai dei classici, tra cui bisogna ricordare “Pezzi di vetro“, “Pablo” e “Le storie di ieri“.
Nel 1976 gira l’Italia con una serie di concerti, donandone il ricavato a Lotta Continua. Nello stesso anno pubblica l’album “Buffalo Bill“, anch’esso di notevole impatto, nonostante contenga brani più simili a quelli del suo esordio. Un altro aspetto che denota la peculiarità del suo stile, oltre l’uso delle metafora e della sinestesia, è quello della particolare costruzione in cui vengono posti l’uno accanto all’altro termini che appartengono a sfere sensoriali diverse. Uno dei tanti esempi di tale costruzione si può notare in quella che, insieme a “Santa Lucia“, considero tra le sue migliori canzoni. Il brano in questione è la malinconica “Atlantide“, e nell’uomo che nasconde sotto il letto “un barattolo di birra disperato“, si scorge uno degli accostamenti a cui mi riferisco.
Durante un concerto al Palalido di Milano, il 2 aprile del 1976, un gruppo di persone appartenenti, forse, ad autonomia operaia, un’organizzazione extraparlamentare di sinistra, interrompe bruscamente l’esibizione del cantautore e, dopo essersi appropriato del palco, lo contesta duramente, muovendogli accuse insensate e invitandolo a suicidarsi per la sua presunta ambivalenza di artista dalla parte dei più deboli e di uomo d’affari che si lega alle multinazionali. A causa dello choc subito, De Gregori interrompe il tour intrapreso e si ritirerà dalle scene. Profondamente ferito, attraversa una crisi esistenziale e decide di intraprendere un’altra professione. Lavora in una libreria romana e si sposa con una sua ex compagna di liceo, Alessandra Gobbi. Dal matrimonio nasceranno i gemelli Marco e Federico ai quali dedicherà il celebre brano “Raggio di sole“.
Fortunatamente si tratta di una crisi passeggera. Dopo due anni di silenzio, torna alla ribalta con un altro album, semplicemente intitolato “Francesco De Gregori” ed in cui il singolo trainante, “Generale“, un suggestivo ritratto della crudeltà della guerra, è considerato uno dei pilastri del pacifismo di quel periodo. Nonostante il processo pubblico subito, De Gregori continua a produrre testi politicizzati e altamente poetici, alternandoli a brani dolcemente malinconici.
Ancora una volta emergono testi sospesi tra realtà e sogno, persino nella canzone appena menzionata dove, accanto ad una dura denuncia nei confronti della guerra, descrive, con il suo peculiare stile, il sogno che sta per realizzarsi di un reduce di guerra che fa ritorno a casa, pronto a riscaldare il proprio cuore e a tuffarsi nuovamente nell’amore.
Nonostante l’opposizione dell’artista, “Generale” viene in seguito adottata come canzone del Partito Socialista Italiano.
È del 1979 il leggendario tour insieme ad un altro grande della musica italiana, Lucio Dalla, che sfocerà nel doppio album dal vivo intitolato “Banana Republic“.
Nonostante il suo consolidato successo, De Gregori non smetterà di produrre altri album che non solo confermano la sua elevata statura artistica, ma ottengono anche prestigiosi premi, quattro targhe “Tenco” (lo sfortunato cantautore a cui De Gregori dedica la struggente “Festival“), due dischi di Platino e un disco d’oro. Nel 1983 il brano “La donna cannone“, sarà annoverato tra i più grandi successi di questo artista che riesce a conquistare anche quella parte di pubblico cosiddetto “popolare” e che ignora la canzone d’autore.
“Viva l’Italia” (1979), “Titanic” (1982), “Scacchi e tarocchi” (1985), “Terra di nessuno” (1987), “Miramare 19.04.89“, “Canzoni d’amore” (1992), “Prendere e lasciare” (1996), Amore nel pomeriggio” (2001), “Il fischio del vapore” (2002), “Pezzi” (2005), “Calypsos” (2006), “Per brevità chiamato artista” (2008), “Sulla strada” (2012), “Vivavoce” (2014), “De Gregori canta Bob Dylan – Tra amore e furto” (2015) sono gli album che, insieme ad alcuni live, seguiranno “Banana Republic“.
Nel 2006 il quotidiano “La Repubblica” indice un referendum in cui il nostro cantautore sarà segnalato tra i migliori artisti degli ultimi trent’anni.
Molti sono i concerti che tiene annualmente in diverse città italiane, caratterizzati spesso da stravolgimenti veri e propri delle sue canzoni, così come fa il suo maestro, Bob Dylan, recentemente insignito del Premio Nobel per la Letteratura.
Non pochi saranno i brani, alcuni piuttosto cupi, che rimanderanno alla storia italiana attuale, caratterizzata, ormai da tempo, da corruzione e indifferenza. Una realtà agghiacciante che forse vorremmo non fosse raccontata, continuando a sognare “un altro Egitto” e identificandoci con “i perdenti meravigliosi” del Titanic che viaggiano in terza classe e sognano un futuro migliore, insieme ad uno dei nostri più rappresentativi artisti della canzone d’autore.
Di seguito una raccolta delle sue più significative citazioni accompagnate da foto e video.
Fa parte delle esigenze di noi uomini interrogarsi su un mistero come quello della morte. Soprattutto per un laico come me, uno che non “crede” nel senso tradizionale del termine. Uno che non ha un’idea consolidata dell’aldilà, che non si aspetta un paradiso cattolico. Nella canzone il mistero viene risolto dalla figura di un angelo che “viene a sciogliere e non a legare”, scusa se mi cito. Il senso è vedere la nostra fine come un momento di scioglimento dolce, non una frattura, non una cosa di cui aver paura. Una canzone che dovrebbe riconciliarci con l’idea della morte che in occidente è sempre bandita. Soprattutto nelle canzoni, perché poi nessuno si scandalizza se un film o un romanzo trattano l’argomento. In una canzone è inusuale.
Non bisogna vergognarsi della propria fragilità.
Il problema è che quando riarrangio le vecchie canzoni mi fucilano. La gente vuole sentirle così come le ha trovate trent’anni fa sul disco. Invece le canzoni appartengono a tutti, anche a chi le ha scritte.
Sono di sinistra, ma non le appartengo.
Amando la letteratura, capisco che non sono adatto a scrivere un romanzo. Se tanti miei colleghi avessero la stessa consapevolezza, le librerie sarebbero meno affollate di carta.
L’ammirazione sconfinata per De André mi ha convinto a provare a fare questo mestiere. E poi Bob Dylan.
Spesso fare il cantante non viene considerato un lavoro, i commenti che senti sono del tipo “sempre meglio che lavorare”. A parte che non è così, e non vorrei più sentire di queste cose, ci si dimentica sempre che oltre ai cantanti c’è chi fa promozione, chi stampa i dischi, chi monta i palchi, chi si occupa delle luci… ci sono moltissime persone che lavorano in questo settore, ed è indispensabile rispettarle e tutelarle. Quando la musica va in crisi non patiscono solo i cantanti che vendono meno dischi, ma soffrono tutti quelli che lavorano intorno a loro.
Nelle mie canzoni ci sono troppe parole e le regole della radio di oggi le parole le mettono al bando.
Non scrivo mai in maniera rigida, a tavolino. A volte basta un flashback e in un pezzo può entrarci di tutto.
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