Arthur Rimbaud, l’angelo esiliato

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La poesia di Arthur Rimbaud infrange la tradizione sconvolgendone in modo assoluto gli schemi prestabiliti e trasmettendo un senso di sfuggente agilità che spalancherà le porte ad una lirica innovativa la cui influenza è tuttora presente.
La sua è una lirica dolorosa e potente che mostra la complessità di un’animo lacerato da emozioni dilanianti racchiuse in quell’ebbrezza di ribellione romantica contro un’entità divina volta ad assoggettare l’uomo ed un sistema che cerca di annientarne le sue qualità più autentiche. Alle sue sfide nei confronti di una società asfissiante per qualsiasi essere libero accompagna anche delle imprecazioni contro Dio e la religione cristiana. Ma dentro di sé si scatena un logorio interiore per quelle bestemmie che nel suo animo estremamente sensibile gli procurano un potente senso di sgomento e prostrazione che lo spinge ad esprimere una sofferta richiesta di perdono a quello stesso Dio da lui dileggiato: «Pitié! Seigneur, j’ai peur. J’ai soif, si soif !».

Una scena del film "Poeti dall'inferno". Immagine reperita nel web.

Una scena del film “Poeti dall’inferno“.
Immagine reperita nel web.

Insieme a Paul Verlaine, Stephane Mallarmé, Tristan CorbièreCharles Baudelaire, Rimbaud viene annoverato tra i cosiddetti “poeti maledetti“. Maledetti da chi? Naturalmente non da Dio, ma dalla società in cui vivono che ne ritiene scomoda quella visione morale avversa al conformismo ed alla concezione materialista derivante da un capitalismo indifferente ai valori spirituali.
Rimbaud si affida alla magia della parola con la certezza che possa mutare l’ordine delle cose e vaga in un mondo che esclude ogni identità tra il poeta e quello che scrive.
La sua poesia segue una direzione singolare che implica tre “esperienze”:
L’esperienza di vederel’artista viene colto nell’atto della creazione.
L’esperienza vista con gli occhi degli altri: l’oggettivazione del discorso.
L’esperienza del ladro di fuoco: la ricerca di un nuovo linguaggio poetico.

Come il ladro di fuoco, il poeta è un Prometeo, consapevole del messaggio da lui creato ed il cui linguaggio adottato dev’essere universale affinché riesca a trasmettere ad ogni anima quelle sensazioni che non tutti sono in grado di esprimere con le parole. Deve inoltre difendere l’autonomia di un linguaggio simbolista che si esprime in modo impetuoso e giocoso poiché è il poeta a manovrare la visione del mondo. Ed ogni visione, basata unicamente sulla sensazione, ci trascina in un altro mondo dove lo stesso poeta è regista e spettatore delle trasformazioni derivanti dalla mutabilità dell’attimo.
rimbaud 5La poesia, a causa del suo animo inquieto, rappresenta già da ragazzo la prima fuga da una difficile realtà familiare. Ed è proprio attraverso la lirica che Rimbaud esprime la sua rivolta contro la stupidità, l’ipocrisia, la guerra, il cristianesimo e Dio.
Nato il 20 ottobre del 1854 a Charleville, una cittadina francese situata nelle Ardenne, la sua è la classica famiglia borghese che si nutre di squallide apparenze.
Il padre, capitano di fanteria, è spesso assente ed abbandona presto la famiglia. Ma la figura determinante nella formazione del piccolo Arthur è quello della madre, una donna dispotica e anaffettiva, preoccupata unicamente della gestione delle terre ereditate dal padre e della rispettabilità borghese. Impedisce ai figli di giocare con bambini appartenenti a ceti sociali bassi e li costringe a seguirla ogni domenica a messa. Ad Arthur e ai suoi fratelli viene impartita un’educazione molto rigida che contempla persino punizioni corporali e digiuni. Nella poesia densa di solitudine e di ribellione, “I poeti di sette anni“, si può leggere la dolorosa infanzia di Rimbaud in cui già covano i semi di una rivolta perenne che accompagnerà la sua breve ma intensa esistenza.
***
E la Madre, chiudendo il libro del dovere,

Se ne andava soddisfatta e fiera, senza vedere,
Negli occhi azzurri e sotto la fronte piena di protuberanze,
L’anima del suo bambino in preda alle ripugnanze.
Tutto il giorno sudava obbedienza; molto
Intelligente; tuttavia neri tic, e alcuni tratti
Rivelavano in lui un’aspra ipocrisia.
Nell’ombra di corridoi dai parati ammuffiti,
Tirava fuori la lingua, coi pugni all’inguine,
e negli occhi chiusi vedeva punti.
Una porta si apriva nella sera: alla lampada
Lo si vedeva, lassù, rantolare sulle scale
Sotto un golfo di luce che pendeva dal tetto.
Soprattutto d’estate, vinto, sciocco,
Si rinchiudeva nella frescura delle latrine:
Lì pensava, tranquillo, dilatando le narici.
Quando, ripulito dagli odori del giorno, il giardinetto
Dietro la casa, d’inverno, s’illunava,
Sistemandosi ai piedi di un muro, sepolto nella marna,
E schiacciandosi l’occhio per avere visioni,
Ascoltava brulicare le spalliere scabbiose.
Pietà! Suoi compagni erano solo quei bambini
Che, gracili, la fronte nuda, l’occhio spento sulla guance,
Nascondendo le magre dita gialle e nere di fango,
Sotto abiti vecchi e puzzolenti di diarrea,
Conversavano con la dolcezza degli idioti!
E se, avendolo sorpreso in immonde compassioni,
Sua madre si spaventava, le tenerezze profonde
Del bambino si gettavano su questo stupore.
Era bello. Lei aveva lo sguardo blu, – che mente!  

A sette anni componeva romanzi sulla vita
Del grande deserto, dove brilla l’estatica Libertà,
Foreste, soli, rive, savane! – Si aiutava
Con i giornali illustrati dove, rosso, guardava
Ridere Spagnole e Italiane.
Quando veniva, l’occhio bruno, folle, vestita all’indiana,
– Otto anni – La figlia degli operai vicini,
Piccola brutale, e in un angolo
Gli saltava sulla schiena, scuotendo le trecce,
Lui, da sotto, le mordeva le natiche,
Perché non portava mai le mutandine;
E, malconcio per i pugni e i calci,
Si portava i sapori della sua pelle in camera.
Temeva le squallide domeniche di dicembre
In cui, impomatato, su un tavolino di mogano,
Leggeva una Bibbia dal taglio verde-cavolo;
Ogni notte nell’alcova i sogni lo opprimevano.
Non amava Dio; ma gli uomini che, la sera fulva,
Neri, in blusa, vedeva rientrare nei sobborghi,
Dove i banditori, con tre rulli di tamburo,
Fanno ridere e rumoreggiare le folle attorno agli editti.
– Sognava praterie amorose, dove onde
Luminose, sani profumi, pubescenze d’oro,
Fanno una calma movenza e spiccano il volo!
E come gustava soprattutto le cose oscure,
Quando, nella stanza nuda con le persiane chiuse,
Alta e azzurra, acremente intrisa di umidità,
Leggeva il suo romanzo sempre rimeditato,
Pieno di grevi cieli d’ocra e foreste sommerse,
Fiori di carne dispiegati nei boschi siderali,
Vertigine, crolli, disfatte e pietà!
– Mentre il rumore del quartiere cresceva,
Là in fondo, – e lui, solo, steso su pezzi di tela grezza,
Percepiva violentemente le vele! (26 maggio 1871)
***

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Bambino cresciuto troppo in fretta si rifugia nello studio ottenendo brillanti risultati e componendo poesie e racconti già a dieci anni.
«Fin sa piccolo scriveva per divertirsi, – evidenzierà la sorella Isabelle. – Aveva appena dieci anni e già ci teneva svegli per lunghe serate leggendoci i suoi meravigliosi viaggi in contrade sconosciute e bizzarre, in mezzo a oceani e deserti, per fiumi e montagne…».
Adolescente affascinante e inquieto, trascorre la maggior parte delle sue giornate trincerato dietro un indecifrabile silenzio, immerso nei suoi pensieri, ma con gli occhi sempre pronti a cogliere anche le più impercettibili sfumature. Non ama giocare con i compagni ed il suo professore di latino, François Pérette, impensierito da quello studente molto differente dagli altri, pronuncia le seguenti parole: «Definitelo intelligente quanto volete, ma farà una brutta fine. C’è qualcosa che non mi piace nei suoi occhi, nel suo sorriso… vi dico che finirà male».

Rimbaud nella visione del pittore francese Jean Louis Forain

Rimbaud nella visione del pittore francese Jean Louis Forain.

La sua ribellione, silenziosamente annidatasi per molti anni in sguardi sfuggenti ed ambigui, esplode a sedici anni con ripetuti allontanamenti da casa e vagabondaggi in cui sperimenta anche l’alcool, la droga e la prigione.
Il 29 agosto del 1870 avviene la sua prima fuga. Mentre passeggia con la madre e le sorelle, si allontana con la scusa di dover prendere un libro dimenticato a casa e sale su un treno diretto a Parigi. A Charleroi si rende conto di non avere denaro a sufficienza per proseguire il tragitto, ma decide di rimanere sul treno. Viene così arrestato e rinchiuso nella prigione di Mazas. Grazie ad un suo professore che gli paga la cauzione esce dal carcere.

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Dalla sua sete continua di libertà, sottrattagli sin dalla nascita, erompe una poesia intima che, accanto alla violenza verbale e al desiderio di suscitare scandalo, permette di cogliere la rara sensibilità di un animo innocente che sogna un mondo di amore e di giustizia. Ispiratosi inizialmente al romanticismo, e a Victor Hugo in modo particolare, rimbaud 11 nel 1870, oltre alla sua prima fuga dall’ambiente meschino di Charleville, avviene un cambiamento radicale di questo “enfant prodige“. Nonostante i suoi vani tentativi di allontanarsi dalla cittadina, non perde tempo e s’immerge nella lettura di romanzi di occultismo e di scrittori francesi progressisti. Le notizie riguardo la sua attiva adesione alla Comune nel 1871 sono poco chiare, ma resta certo che abbia moralmente preso parte a quei moti rivoluzionari.
Improvvisamente rinnega tutta la sua produzione letteraria precedente ed invia al giovane professore Demeny una famosa lettera in cui viene espressa la sua fiammeggiante “teoria della veggenza” di cui ne pubblico un breve estratto.
«[Il poeta deve sperimentare] tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto,e il sommo Sapiente!Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste! Crepi pure nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti su cui l’altro si è accasciato! […] Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco. Ha a suo carico l’umanità, perfino gli animali; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta da laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, darà l’informe. Trovare una lingua;Del resto, ogni parola essendo idea, il tempo di un linguaggio universale verrà! Bisogna essere un accademico,più morto di un fossile,per rifinire un dizionario, di qualunque lingua sia. I deboli che si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, potrebbero rovinare subito nella pazzia!Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la quantità d’ignoto che si risveglia nell’anima universale del suo tempo: egli darebbe di piùdella formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che diventa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso».

Rimbaud in un disegno di Pablo Picasso

Rimbaud in un disegno di Pablo Picasso

Nello stesso tempo chiede al suo amico Demeny di dar fuoco a tutte le poesie scritte precedentemente. Quest’ultimo, fortunatamente, non obbedisce a tale richiesta.
Rimbaud invia a Paul Verlaine le poesie scritte dopo aver formulato la teoria della veggenza e quest’ultimo lo invita calorosamente a recarsi a Parigi e ad unirsi ai circoli intellettuali da lui frequentati: «Venga, cara grande anima! La chiamiamo, l’aspettiamo!». Incontratosi con Verlaine, affascinato da quel bellissimo diciassettenne, Rimbaud instaura una relazione con il poeta che lascerà la moglie per quel giovane. La relazione tra i due sarà burrascosa a causa della gelosia morbosa di Verlaine e della personalità impulsiva del giovane Rimbaud che un giorno cercherà di sfregiare un giornalista reo di aver evidenziato l’ambiguo rapporto tra i due poeti. Le fughe continue di Rimbaud, che rifiuta qualsiasi lavoro e preferisce vagabondare tra i barboni, ed il suo atteggiamento poco tollerante verso quei poeti ancorati alla tradizione, culmineranno in una lite tra i due artisti. Paul Verlaine ferisce con un colpo di pistola Rimbaud il 10 luglio del 1873 a Bruxelles. Per tale ragione viene condannato a due anni di carcere, nonostante Rimbaud ritiri la denuncia ed evidenzi lo stato di ebbrezza dell’amico.

Da sinistra, seduti: Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Léon Valade, Ernest d'Hervilly e Camille Pelletan. In piedi: Elzéar Bonnier, Emile Blémont e Jean Aicard. "Coin de table" di Henri Fantin-Latour

Da sinistra, seduti: Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Léon Valade, Ernest d’Hervilly e Camille Pelletan. In piedi: Elzéar Bonnier, Emile Blémont e Jean Aicard. “Coin de table” di Henri Fantin-Latour.

Dopo quel triste episodio, Rimbaud fa ritorno a casa e termina “Una stagione all’Inferno“. Ma dopo averne inviato qualche copia agli amici, si rende conto di trovarsi nell’impossibilità di pagare una casa editrice. Il suo successo negli ambienti intellettuali era durato ben poco a causa del suo carattere complesso e della vicenda che aveva coinvolto Verlaine. In poco tempo il poeta deve fare i conti con la solitudine e la derisione.
Quando si reca nuovamente a Parigi ed entra nel Caffè Tabourey, frequentato dagli intellettuali e dagli artisti del periodo, alla vista di colui che viene considerato “il demone di Verlaine” tutti tacciono e non gli rivolgono nemmeno un breve cenno di saluto. Rimbaud si siede in disparte.
Nel 1874 Rimbaud si trasferisce a Londra, ma a causa della sua scarsa conoscenza dell’inglese non riesce a trovare un lavoro adeguato. Comincia a studiare la lingua di quella città che tanto lo aveva affascinato quando vi aveva soggiornato con Verlaine qualche anno prima, ma alla fine di dicembre torna nuovamente a Charleville.
Da quel momento in poi, nonostante i continui inviti di Verlaine a convertirsi al cristianesimo e a raggiungerlo a Londra, la sua vita sarà caratterizzata da continui viaggi in città europee dove svolge diverse mansioni. Ha ormai abbandonato da tempo ed in modo definitivo la letteratura.
Nel 1880 si reca in Egitto per dedicarsi ad attività commerciali ed esplora alcune zona dell’Etiopia. Nel 1891 un cancro al ginocchio lo costringe a far ritorno in Francia. Dopo l’amputazione della gamba destra, si spegne a Marsiglia il 10 novembre del 1891 a soli trentasette anni.
rimbaud 9Tra i suoi scritti giunti a noi, pubblicati quasi tutti all’insaputa del poeta, bisogna menzionare, oltre alla già citata “Une saison en enfer“, “Premières proses”, “Poésies”, “Lettre du baron Petdechèvre”, “Derniers vers”, “Les déserts de l’amour”, “Proses évangéliques”, “Une saison en enfer”, “Illuminations”, “Album Zutique”, “Les Stupra” e “Lettres”.
Tutte le sue composizioni non sono esenti dall’influenza della tradizione classica, ma l’originalità del ritmo e delle metafore improvvise che si accordano agli altalenanti stati d’animo del poeta oscillanti tra fugaci momenti di gioia e di speranza e dolorosi attimi di pessimismo esasperato, affascinano potentemente chi ne assapora lentamente le parole e lo rende consapevole di trovarsi davanti a poesie sublimi mai lette prima e che forse mai più si leggeranno.
Molti sono stati gli studi intrapresi sulla poetica di questo ragazzo enigmatico che inizia precocemente a scrivere e lascia giovanissimo una poesia sorta per il suo impetuoso anelito al palesamento del mistero e dell’assoluto e si spegne con la stessa rapidità con cui è cominciata. Una vita forse non basterebbe per analizzare a fondo le sue meravigliose poesie ed è impossibile non lasciarsi travolgere da quel fuoco giovanile che arde in quell’animo incontaminato aspramente avverso al compromesso e alla società che vi sguazza dentro.
La poesia è rivoluzione.
È caos.
Scandalizza e scuote l’animo umano.
Il resto è melassa insipida di cui non abbiamo alcun bisogno.
La necessità di perdersi in poesie elevatissime come quelle di Rimbaud e di altri poeti che hanno segnato la storia della letteratura è prepotente in questo deserto letterario contemporaneo.
Di seguito alcuni frammenti delle sue straordinarie liriche ed immagini tratte dal film indipendente di Agnieszka Holland, realizzato nel 1995 ,”Poeti dall’inferno“, superbamente interpretato da Leonardo di Caprio ( nel ruolo di Rimbaud) e David Thewlis (nel ruolo di Paul Verlaine). Alla fine del post ho raccolto quelle che considero le più belle poesie di Rimbaud.

Rimbaud in un ritratto di Pablo Picasso

Forse voragini d’azzurro, pozzi di fuoco. Forse è su questi piani che s’incontrano lune e comete, favole e mari. Nelle ore d’amarezza immagino sfere di zaffiro, di metallo.
Sono padrone del silenzio.
***
Scrivevo dei silenzi, delle notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo delle vertigini.
***
È ritrovata.
Che? – L’Eternità.
È il mare andato via
Col sole.
***
Bambine che si vendono sui marciapiedi. Bambini con la mano tesa al semaforo. Cani abbandonati. Uomini con le tette che si esibiscono sotto i lampioni. Uomini senza palle che vendono droga all’angolo. Bambini nei cassonetti e immondizie per la strada. Scippi, rapine e risse. Ragazzini che fumano e sputano sui muri. Vestiti tutti uguali e pensieri tutti uguali. Ubriaconi alla guida che vanno a tutta birra. Pensavo che lavando il parabrezza della mia auto tutto questo sarebbe sparito.
***
Sono ritornato a Charleville il giorno dopo averla lasciata […] Muoio, mi decompongo nella mediocrità, nella meschinità, nel grigiore. Che vuole, mi incaponisco tremendamente a voler adorare la libertà libera, e… un mucchio di cose, da “far pietà”, non è vero? – Avrei dovuto ripartire oggi stesso; potevo farlo: ero vestito a nuovo, bastava vendere l’orologio, e viva la libertà! – Dunque sono rimasto! Sono rimasto! – e vorrò ripartire ancora tante altre volte. – Su, cappello, cappotto, i pugni nelle tasche, e andiamo. Ma resterò. Questo non l’ho promesso. Ma lo farò per meritarmi il suo affetto: me l’ha detto lei. Lo meriterò.
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È meglio il silenzio che l’equivoco.
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Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé, poiché l’uomo – finora abominevole, – le avrà reso il suo congedo, sarà poeta, anche lei! La donna troverà dell’ignoto! I suoi mondi d’idee differiranno dai nostri? – Troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, noi le comprenderemo.
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La morale è la debolezza del cervello.
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Voglio sperimentare ogni formula d’amore, di sofferenza, di follia.
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Ho orrore di tutti i mestieri. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano da penna vale la mano da aratro. – Che secolo di mani! – Io non avrò mai la mia mano.
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La vita è una farsa dove tutti abbiamo una parte.
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Laggiù, non ci sono forse anime oneste, che mi vogliono bene… Venite… Ho un guanciale sulla bocca, non mi sentono, sono fantasmi. E poi, nessuno pensa mai agli altri. Non avvicinatevi. Puzzo di bruciato, questo è certo.
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Credo di essere all’inferno, quindi ci sono.
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E tuttavia, basta dei, basta dei! l’Uomo è Re, l’Uomo è Dio.
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Per le strade, nelle notti d’inverno, senza dimora, senza vestiti, senza pane, una voce mi stringeva il cuore gelato: “Eccoti, è la forza. Non sai né dove vai né perché vai, entra dappertutto, rispondi a tutto. Non ti ammazzeranno più che se fossi cadavere.” Al mattino avevo lo sguardo così sperduto e il contegno così smorto, che quelli che ho incontrato forse non mi hanno visto.
***
Solo l’Amore divino conferisce le chiavi della conoscenza.
***
Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria sfibrante e il mare; verso i supplizi, attraverso il silenzio delle acque e dell’aria mortali; verso le ridenti torture, nel loro silenzio atrocemente burrascoso.
***
— Sgorga, stagno, — schiuma, riversati sui ponti, e al di sopra dei boschi; — drappi neri ed organi, — lampi e tuoni — salite e scorrete; — Acque e tristezze, salite e rialzate i Diluvi.
Che da quando si sono dissolti, — oh le pietre preziose interrate, e i fiori aperti! — è una noia! e la Regina, la Strega che accende la sua brace nel vaso di terra, non vorrà mai raccontarci ciò che ella sa, e che noi ignoriamo.
***
Fiori magici ronzavano. I pendii li cullavano. Bestie di una eleganza favolosa circolavano. Le nubi si addensavano sull’alto mare fatto di una eternità di calde lacrime.
***

Ho abbastanza conosciuto. Le fermate della vita — O Frastuoni e Visioni!
Parto per affetti e rumori nuovi!
***
L’estate è opprimente: la calura non è molto costante, ma al vedere che il bel tempo interessa a tutti, e che tutti sono dei porci, odio l’estate, che mi uccide non appena si manifesta […] Mi auguro con forza che le Ardenne siano occupate e tiranneggiate sempre più sfrenatamente […] Il primo mattino d’estate, e le sere di dicembre, ecco ciò che mi ha sempre incantato qui.
***
Ci hanno promesso di seppellire nell’ombra l’albero del bene e del male, di deportare le onestà tiranniche, affinché potessimo condurre il nostro più puro amore. Tutto cominciò con un certo disgusto e tutto finì, – non potendo noi impadronirci subito di quell’eternità, – tutto finì con un effluvio di profumi.
***
Non è niente! sono qui! sono sempre qui.
***

Chiuso perpetuamente in questa inqualificabile contrada ardennese, senza frequentare un solo uomo, raccolto in un lavoro infame, inetto, ostinato, misterioso, rispondendo col silenzio alle domande, alle apostrofi grossolane e cattive, mostrandomi dignitoso nella mia posizione extra-legale, ho finito col provocare risoluzioni atroci, da parte d’una madre inflessibile quanto settantatré amministrazioni dai berretti di piombo.
***
Mi annoio molto, sempre; anzi, non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me. […] Costretto a parlare il loro ostrogoto, a mangiare le loro schifose pietanze, a subire i mille fastidi che provengono dalla loro pigrizia, dal loro tradimento, dalla loro stupidità!
***
O Natura! O madre mia! Che stercaglia! e che mostri d’innocenza, questi contadini […] Tuttavia lavoro con una certa regolarità, scrivo storielle in prosa, titolo generale: Libro pagano, o Libro negro […] Mi sento abominevolmente a disagio. Neanche un libro, neanche un’osteria, neanche un incidente per la strada. Quale orrore questa campagna francese. La mia sorte dipende da questo libro, per il quale mi restano da inventare una mezza dozzina di storie atroci. Ma come inventare atrocità qui.
***
Me ne andavo, coi pugni nelle tasche sfondate; | Anche il mio paltò diventava ideale; | Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele; | Perbacco! quanti amori splendidi ho sognato!
***

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Leggiadro come angelo è il cielo | Comunicano l’onda e l’azzurro. | Esco. Se mi ferisce un raggio | Soccomberò sul muschio.
***
Il lupo urlava sotto le foglie | Sputando le piume più belle | Del suo pasto di polli: | Come lui mi consumo.
***
A volte vedo nel cielo plaghe sterminate coperte da bianche nazioni in festa. Un grande vascello d’oro, sopra di me, sventola le sue bandiere variopinte alla brezza del mattino. Ho creato tutte le feste, tutti i trionfi, tutti i drammi. Ho cercato d’inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue. Ho creduto d’acquisire poteri sovrannaturali.
***
La morte, raggiungila con tutti i tuoi appetiti, e il tuo egoismo e tutti i peccati capitali.
***

"Bene. Non sono interessato a quello che gli altri poeti fanno":

Bene. Non sono interessato a quello che gli altri poeti fanno“.

Mi sono disteso nel fango. Mi sono asciugato al vento del delitto. E alla follia ho giocato qualche brutto tiro.
***
La mia razza non si è mai ribellata se non per predare: come i lupi con l’animale che non hanno ucciso.
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Io capisco, e siccome non mi so spiegare senza parole pagane, vorrei tacere.
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L’amore è da reinventare, si sa.
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Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo molto chiaramente una moschea al posto di un’officina, una scuola di tamburi tenuta da angeli, calessi per le vie del cielo, un salotto in fondo al lago; i mostri, i misteri; un titolo di vaudeville faceva sorgere davanti a me i terrori.
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Quando andremo oltre le spiagge estese e i monti, a salutare la nascita del nuovo lavoro, la saggezza novella, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della superstizione, ad adorare — per primi! — Natale sulla terra!
***
Già l’autunno! – Ma perché rimpiangere un eterno sole, se siamo impegnati nella scoperta della chiarità divina, – lontano dalla gente che sulle stagioni muore.
***
Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino dove si schiudeva ogni cuore, ogni vino scorreva.
Una sera, feci sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. — E la trovai amara. — E l’ingiuriai.
Mi armai contro la giustizia.
Fuggii. Oh streghe, oh miseria, oh odio, a voi il mio tesoro fu affidato!
Riuscii a cancellare dal mio spirito ogni speranza umana. Su ogni gioia per strangolarla feci il balzo sordo della bestia feroce.
Invocai i carnefici per mordere morendo il calcio dei loro fucili. Invocai i cataclismi per soffocarmi con la sabbia, il sangue. La sciagura fu la mia dea. Mi stesi nel fango. Mi asciugai al vento del crimine. E giocai brutti tiri alla follia.
E la primavera mi portò il riso orrendo dell’idiota.
***
Un giorno, scendendo lungo fiumi impassibili,
sentii che i battellieri non mi trainavano più.
Urlanti pellirossa li avevano assaliti
a frecciate, e inchiodati ai pali variopinti.
***

La stella piange rosa in seno alle tue orecchie, | L’infinito rotola bianco dalla nuca alle reni | Il mare ingemma fulvo le tue mamme vermiglie | L’Uomo dà sangue nero al tuo fianco sovrano.
***
No, a diciassette anni non si può essere seri. Quando hai diciassette anni non fai veramente sul serio.
***
Il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la scruta, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale!
***
Questa lingua sarà anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e tira.
***
Sono il viandante della strada maestra nei boschi nani; il rumore delle chiuse copre i miei passi. Vedo a lungo il malinconico ranno d’oro del tramonto.
Vorrei essere il bambino abbandonato sulla diga migrata in alto mare, il piccolo servitore lungo il viale la cui fronte tocca il cielo.
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Tornerò, membra di ferro, pelle scura, occhio furente: dalla mia maschera, mi giudicheranno di razza forte. Avrò dell’oro: sarò ozioso e brutale. Le donne hanno cura di questi infermi feroci reduci dai paesi caldi. Sarò immischiato negli affari politici. Salvo. Ora sono maledetto, ho orrore della patria. Il meglio è un bel sonno da ubriaco, sul greto.
***

Visto abbastanza. La visione si è incontrata in ogni aria. Avuto abbastanza. Rumori di città, la sera, e al sole, e sempre. Conosciuto abbastanza. I decreti della vita. – O Frastuoni e Visioni! Partenza nell’affetto e nel rumore nuovi!
***

«I poveri in chiesa»

Relegati fra banchi di quercia, agli angoli della chiesa
Che il loro fiato puzzolente intiepidisce, gli occhi
Rivolti al coro sfavillante e alla cantoria
Di venti gole sgolanti inni sacri;
Fiutando l’odore della cera come profumo di pane,
Felici, umiliati come cani bastonati,
I Poveri al buon Dio, padrone e sire,
Offrono i loro oremus ridicoli e testardi.
Per le donne è proprio bello lucidare i banchi
Dopo i sei giorni neri in cui Dio le fa soffrire!
E cullano, avvolti in strane pellicce,
Delle specie di bambini che piangono da morire.
Coi seni sporchi di fuori, queste mangiaminestre,
Una preghiera negli occhi senza pregare mai,
Guardano malignamente sfilare un gruppo
Di ragazzine coi loro cappelli deformi.
Fuori, il freddo, la fame, l’uomo in baldoria:
È bello. Ancora un’ora; e poi, mali senza nome!
– Intanto, tutt’attorno, geme, grugnisce, bisbiglia
Una collezione di vecchie coi bargigli:
Ecco qui gli stralunati e gli epilettici
Che ieri scansavamo agli incroci;
E col naso affamato negli antichi messali,
Ecco i ciechi, che un cane guida nei cortili.
E tutti, sbavando una fede mendicante e stupida,
Recitano un lamento infinito a Gesù
Che sogna in alto, ingiallito dalla livida vetrata,
Lontano dai magri malvagi e dai cattivi panciuti,
Lontano dagli odori di carne e di stoffe ammuffite,
Farsa prostrata e oscura dai gesti ripugnanti;
– E l’orazione fiorisce in espressioni scelte
E le misticità assumono toni incalzanti
Quando, da navate dove perisce il sole, banali
Pieghe di seta, e verdi sorrisi, le Dame dei quartieri
Distinti, – o Gesù! – le malate di fegato
Fan baciare le lunghe dita gialle alle acquasantiere.
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rimbaud 15

       

«A diciassett’anni non si può esser seri»

I
A diciassett’anni non si può esser seri.
– Una sera, al diavolo birre e limonata
e gli splendenti lumi di chiassosi caffè!
– Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare.

Com’è gradevole il tiglio nelle sere di giugno!
L’aria è sì dolce che a palpebre chiuse
annusi il vento che risuona – la città è vicina –
e porta aromi di birra e di vino…

II
Ecco scorgersi un piccolo brano
d’azzurro scuro, incorniciato da lievi fronde,
punteggiato da una malvagia stella, che si fonde
in dolci fremiti, piccola e bianca…

Notte di giugno! Diciassett’anni! Ti lasci inebriare.
La linfa è uno champagne che dà alla testa…
Divaghi e senti un bacio sulle labbra
che palpita come una bestiolina…

III
Il cuore è un folle Robinson in un romanzo
– quando, nel pallido chiarore d’un riverbero
passa una damigella affascinante
all’ombra del colletto d’un padre tremendo…

E siccome ti trova immensamente ingenuo,
trotterellando sui suoi stivaletti
si volta, attenta ma con gesti vivaci
– e sul tuo labbro muoiono le cavatine…

IV
Sei innamorato. Fino al mese d’agosto è affittato.
Sei innamorato. I tuoi sonetti la fanno ridere.
Tutti gli amici sono già andati, sei di cattivo gusto.
– Poi l’adorata, una sera, si degnò di scriverti!…

– Quella sera… – Ritorni ai lucenti caffè
e ordini ancora birre e limonata…
a diciassett’anni non si può esser seri,
se ci son verdi tigli lungo la passeggiata.

***

«Quanti amori assurdi ho strasognato!»

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
anche il mio cappotto diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa!, ed ero il tuo leale;
oh! quanti amori assurdi ho strasognato!

Nei miei unici calzoni avevo un largo squarcio.
– Pollicino sognatore, in corsa sgranavo
rime. Il mio castello era l’Orsa Maggiore.
– Le mie stelle in cielo facevano un dolce fru-fru.

Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade,
nelle calme sere di settembre in cui sentivo
sulla fronte le gocce di rugiada, come un vino vigoroso;

in cui, rimando in mezzo a quelle ombre fantastiche,
come fossero lire, tiravo gli elastici
delle mie suole ferite, con un piede contro il cuore.

***

«Sorridente come sorriderebbe un bimbo malato»

È una gola di verzura dove un fiume canta
impigliando follemente alle erbe stracci
d’argento: dove il sole, dalla fiera montagna
risplende: è una piccola valle che spumeggia di raggi.

Un giovane soldato, bocca aperta, testa nuda,
e la nuca bagnata nel fresco crescione azzurro,
dorme; è disteso nell’erba, sotto la nuvola,
pallido nel suo verde letto dove piove la luce.

I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridente come
sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno.
O Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo.

I profumi non fanno più fremere la sua narice;
dorme nel sole, la mano sul suo petto
tranquillo. Ha due rosse ferite sul fianco destro.

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Arthur Rimbaud by Leaubellon.

«Conosco i cieli che esplodono in lampi»

Poiché discendevo i Fiumi impassibili,
mi sentii non più guidato dai bardotti:
pellirossa urlanti li avevan presi per bersaglio
e inchiodati nudi a pali variopinti

Ero indifferente a tutti gli equipaggi,
portatore di grano fiammingo e cotone inglese.
Quando coi miei bardotti finirono i clamori,
i Fiumi mi lasciarono discendere dove volevo.

Nei furiosi sciabordii delle maree
l’altro inverno, più sordo d’un cervello di fanciullo
ho corso! E le Penisole salpate
non subirono mai caos così trionfanti.

La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli.
Più leggero d’un sughero ho danzato tra i flutti
che si dicono eterni involucri delle vittime,
per dieci notti, senza rimpiangere l’occhio insulso dei fari!

Più dolce che ai fanciulli la polpa delle mele mature,
l’acqua verde penetrò il mio scafo d’abete
e dalle macchie di vini azzurrastri e di vomito
mi lavò, disperdendo àncora e timone.

E da allora mi sono immerso nel Poema
del Mare, infuso d’astri, e lattescente,
divorando i verdiazzurri dove, flottaglia
pallida e rapida, un pensoso annegato talvolta discende;

dove, tingendo di colpo l’azzurrità, deliri
e lenti ritmi sotto il giorno rutilante,
più forti dell’alcol, più vasti delle nostre lire,
fermentano gli amari rossori dell’amore!

Conosco i cieli che esplodono in lampi, e le trombe
e le risacche e le correnti: conosco la sera
e l’Alba esaltata come uno stormo di colombe,
e talvolta ho visto ciò che l’uomo crede di vedere!

Ho visto il sole basso, macchiato di mistici orrori,
illuminare lunghi filamenti di viola,
che parevano attori in antichi drammi,
i flutti scroscianti in lontananza i loro tremiti di persiane!

Ho sognato la verde notte delle nevi abbagliate,
bacio che sale lento agli occhi dei mari,
la circolazione di linfe inaudite,
e il giallo risveglio e il blu dei fosfori cantori!

Ho visto fermentare enormi stagni, reti
dove marcisce tra i giunchi un Leviatano!
Crolli d’acque in mezzo alle bonacce
e in lontananza, cateratte verso il baratro!

Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace!
E orrende secche al fondo di golfi bruni
dove serpi giganti divorati da cimici
cadono, da alberi tortuosi, con neri profumi!

Quasi fossi un’isola, sballottando sui miei bordi litigi
e sterco d’uccelli, urlatori dagli occhi biondi.
E vogavo, attraverso i miei fragili legami
gli annegati scendevano controcorrente a dormire!

Io, perduto battello sotto i capelli delle anse ,
scagliato dall’uragano nell’etere senza uccelli,
io, di cui né Monitori né velieri Anseatici
avrebbero potuto mai ripescare l’ebbra carcassa d’acqua;

libero, fumante, cinto di brune violette,
io che foravo il cielo rosseggiante come un muro
che porta, squisita confettura per buoni poeti,
i licheni del sole e i moccoli d’azzurro;

io che correvo, macchiato da lunule elettriche,
legno folle, scortato da neri ippocampi,
quando luglio faceva crollare a frustate
i cieli oltremarini dai vortici infuocati;

io che tremavo udendo gemere a cinquanta leghe
la foia dei Behemots e i densi Maelstrom,
filando eterno tra le blu immobilità,
io rimpiango l’Europa dai balconi antichi!

Ho veduto siderali arcipelaghi! ed isole
i cui deliranti cieli sono aperti al vogatore:
– È in queste notti senza fondo che tu dormi e ti esìli,
milione d’uccelli d’oro, o futuro Vigore?

Ma è vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro:
l’acre amore m’ha gonfiato di stordenti torpori.
Oh, che esploda la mia chiglia! Che io vada a infrangermi nel mare!

Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera
nera e fredda dove verso il crepuscolo odoroso
un fanciullo inginocchiato e pieno di tristezza, lascia
un fragile battello come una farfalla di maggio.

Non ne posso più, bagnato dai vostri languori, o onde,
di filare nelle scia dei portatori di cotone,
né di fendere l’orgoglio di bandiere e fuochi,
e di nuotare sotto gli orrendi occhi dei pontoni.

«Infanzia»

I

Quest’idolo, occhi neri e crine giallo, senza genitori né corte, più nobile della favola, messicano e fiammin- go; il suo dominio, azzurro e verzura insolenti, si stende su spiagge nominate, da onde senza vascelli, con nomi ferocemente greci, slavi, celtici.

 

   Al limitare della foresta, – i fiori di sogno tintinnano, scoppiano, risplendono, – la fanciulla dalle labbra d’a- rancia, le ginocchia incrociate nel chiaro diluvio che sgorga dai prati, nudità che adombrano, attraversano e vestono gli arcobaleni, la flora, il mare.

 

   Dame che volteggiano sulle terrazze vicino al mare; infanti e giganti, nere superbe nel muschio grigio-ver-de, gioielli ritti sul suolo grasso dei boschetti e dei giardinetti disgelati, – giovani madri e sorelle maggiori dagli sguardi pieni di pellegrinaggi, sultane, principesse dal portamento e dal costume tirannici, piccole straniere e persone dolcemente infelici.

   Che noia, l’ora del “caro corpo” e del “caro cuore”.

 

 

                                                                                                    II

 

   È lei, la piccola morta, dietro ai roseti. – La giovane mamma defunta scende la scalinata. – Il calesse del cu- gino stride sulla sabbia. – Il fratellino (è in India!) lì, davanti al tramonto, sul prato di garofani. – I vecchi che furono sepolti in piedi nel bastione di violacciocche.

 

   Lo sciame di foglie d’oro avvolge la casa del generale. Sono nel mezzogiorno. – Si segue la strada rossa per arrivare alla locanda vuota. Il castello è in vendita; le persiane sono staccate. – Il curato avrà portato via la chiave della chiesa. – Intorno al parco, le garitte del guardiani sono disabitate. Le palizzate sono così alte che si vedono solo le cime fruscianti. D’altronde non c’è niente da vedere là dentro.

 

   I prati risalgono verso i casolari senza galli, senza incudini. La chiusa è alzata. Oh i Calvari e i mulini del deserto, le isole e le mole!

 

Fiori magici ronzavano. I pendii lo cullavano. Circolavano bestie di un’eleganza favolosa. Le nuvole si ad- densavano sull’alto mare fatto di un’eternità di calde lacrime.

 

 

                                                                                                     III

 

   Nel bosco c’è un uccello, il suo canto vi ferma e vi fa arrossire.

   C’è un orologio che non suona.

 

   C’è un burrone con un nido di bestie bianche.

 

   C’è una cattedrale che scende e un lago che sale.

 

   C’è una carrozzina abbandonata nel bosco ceduo, o che scende per il sentiero di corsa, infiocchettata.

 

   C’è una compagnia di piccoli commedianti in costume, intravisti sulla strada attraverso il margine del bosco.

 

   C’è infine, quando si ha fame e sete, qualcuno che ti scaccia.

 

 

                                                                                                    IV

 

   Io sono il santo, in preghiera sulla terrazza, – come le bestie pacifiche pascolano fino al mare di Palestina.

 

   Io sono il sapiente dalla scura poltrona. I rami e la pioggia sbattono contro la finestra della biblioteca.

 

   Io sono il viandante della strada maestra fra i boschi nani; il rumore delle chiuse copre quello dei miei passi. Vedo a lungo il malinconico bucato d’oro del tramonto.

 

   Sarei volentieri il bambino abbandonato sulla diga slanciata verso l’alto mare, il piccolo valletto lungo il viale la cui fronte tocca il cielo.

 

   I sentieri sono aspri. I dossi si ricoprono di ginestre. L’aria è immobile. Come sono lontani gli uccelli e le fonti! Non può esserci che la fine del mondo, più avanti.

 

 

                                                                                                      V

 

   Mi si affitti dunque questa tomba, imbiancata a calce con le linee del cemento in rilievo – molto lontano sotto terra.

 

   Mi appoggio al tavolo coi gomiti, la lampada illumina molto vivamente questi giornali che sono tanto idiota da rileggere, questi libri privi d’interesse. –

 

   A enorme distanza sopra il mio salotto sotterraneo, s’impiantano le case, si addensano le nebbie. Il fango è ros- so o nero. Città mostruosa, notte senza fine!

 

   Meno in alto, ci sono le fogne. Ai lati, nient’altro che lo spessore del globo. Forse voragini d’azzurro, pozzi di fuoco. Forse è su questi piani che s’incontrano lune e comete, favole e mari.

 

   Nelle ore d’amarezza immagino sfere di zaffiro, di metallo. Sono padrone del silenzio. Perché mai una parven- za di spiraglio dovrebbe illividire all’angolo della volta?

Rimbaud’s grave – Charleville-Mezieres cemetery, France https://www.flickr.com/photos/25857257@N08/2424270754

      

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