Genio indiscusso del teatro italiano del ‘900, l’attore, drammaturgo, poeta e regista partenopeo Eduardo De Filippo s’impone sulla scena italiana e internazionale con opere in cui delinea magistralmente spaccati di umanità che riescono a far sorridere e nello stesso tempo riflettere. Sebbene i suoi primi lavori vengano scritti in napoletano, ciò non costituirà alcun impedimento nella comprensione di tematiche esistenziali che toccano ognuno di noi. Ed anche se, con il passare del tempo, inizia a scrivere in italiano, non trascurerà di inserire alcune colorite e profonde espressioni napoletane. La sua grandezza risiede nella raffinatezza delle sue opere in grado però di essere comprensibili a tutti. In un periodo in cui la cultura è nuovamente diventata appannaggio di pochi o si è piegata ai gusti di una massa sempre più avulsa dalla tragica realtà socioeconomica ed esistenziale, si avverte la mancanza di questo gigante del teatro che, così come Shakespeare, intuisce l’importanza di proporre opere di elevato spessore culturale in grado di parlare anche al popolo. Il perbenismo, i mutamenti delle nostre abitudini, l’acuta raffigurazione di una società ancora oggi ipocrita, vengono portati sul palco e narrati con un linguaggio lirico e commovente che oltrepassa i confini napoletani per la dimensione universalistica dei suoi testi. Manca a tutti noi un uomo di cultura così immenso da riuscire a parlare di tematiche durissime attraverso il riso, seppur si tratta sempre di un ironico sorriso amaro che potrebbe, oggi come ieri, scuotere l’uomo dalla sua letargia. Con la sua maschera scarna e malinconica di enorme espressività è riuscito a ben ritrarre i dolori, le passioni, le bassezze e le vigliaccherie dell’animo umano. E grazie al suo talento è riuscito a portare sulla scena certi aspetti della nostra esistenza con cui è costretto, come molti di noi, a fare i conti quotidianamente.
Nato a Napoli il 24 maggio del 1900 da una relazione tra l’attore e commediografo Eduardo Scarpetta (l’autore di “Miseria e nobiltà”) e la sarta teatrale Luisa De Filippo, è, come i fratelli Peppino e Titina, figlio naturale del noto artista.
I tre figli di Luisa prenderanno infatti il cognome della madre.
Grazie al padre naturale sia Eduardo che i fratelli avranno sin da ragazzini contatti con il mondo del teatro, lavorando anche come comparse nelle opere rappresentate.
Nel 1911 Eduardo sarà mandato a studiare al Collegio Chierchia, a Foria, a causa del suo carattere vivace e del poco impegno mostrato negli studi. Tra ripetuti tentativi di fuga dovuti all’insofferenza alle regole, comincia ad emergere il talento nella scrittura del futuro artista che si diverte a comporre poesie scherzose rivolte alla moglie del direttore.
Dopo appena due anni lascia gli studi ginnasiali e continua la propria formazione sotto la guida del padre che, per quasi tre ore al giorno, lo obbliga a leggere e a copiare testi teatrali. La lontananza da quell’opprimente collegio gli consente di poter coltivare la passione per il teatro e non poche saranno le occasioni in cui il ragazzo darà prova del suo innato talento.
Nel 1914, Eduardo comincia a svolgere diverse mansioni che lo aiutano a meglio conoscere il mondo del teatro nella compagnia del fratellastro Vincenzo Scarpetta. Sono anni di formazione di fondamentale importanza e di cui farà tesoro. Costretto a interrompere il lavoro nella compagnia dal 1920 al 1922 per adempiere al servizio obbligatorio di leva, prima di partire pubblica il suo primo e breve lavoro teatrale “Farmacia di turno“. Non abbandona un solo momento la sua passione e, persino durante gli anni dell’addestramento militare, approfitta delle ore di permesso per recarsi a teatro e dare libero sfogo alla sua vena creativa.
Concluso il periodo di leva, abbandona la compagnia del fratellastro e si unisce a quella di Francesco Corbinci, che mette in scena “Surriento gentile” di Enzo Lucio Murolo. Eduardo, per la prima volta, si cimenta nella regia con ottimi risultati. Nello stesso anno scrive e cura la regia del lavoro teatrale “Uomo e galantuomo” e nel 1929, usando lo pseudonimo di Tricot, scrive l’atto unico di “Sik Sik l’artefice magico“.
Dopo questa significativa esperienza torna nella compagnia del fratellastro e vi resta fino al 1930.
Nel 1928 convola a nozze con l’americana Doroty Pennington (Dodò).
Continua a recitare anche in altre compagnie e nel 1931 decide di fondare la compagnia del Teatro Umoristico “I De Filippo” insieme ai fratelli Peppino e Titina. È un periodo particolarmente fecondo in cui scrive opere di grande valore come “Natale in casa Cupiello” (1931) e “Chi è cchiù felice ‘e me?” (1932).
“Natale in casa Cupiello”, commedia tragicomica definita dallo stesso Eduardo un «parto trigemino con gravidanza di quattro anni», viene messa in scena per la prima volta come atto unico il 25 dicembre del 1931. Il testo iniziale viene modificato molte volte, tra il 1931 e il 1934, per giungere poi alla stesura definitiva di quel capolavoro da tutti conosciuto e acclamato.
Ambientato in una casa modesta priva di riscaldamento vede come protagonisti principali i coniugi Luca Cupiello e Concetta.
Luca prepara con amore, come ogni Natale, il presepe, dinnanzi alla palese indifferenza della moglie, afflitta da problemi familiari, e del figlio Tommasino che sottolinea di non amare questa tradizione.
Concetta si vede irrompere in casa la figlia Ninuccia che le annuncia di voler lasciare il marito Nicolino con una lettera d’addio perché innamorata di Vittorio. A Luca non viene raccontato quello che sta accadendo e solo la moglie è a conoscenza delle intenzioni della figlia. Concetta ha un breve mancamento e riesce a farsi consegnare da Ninuccia la lettera.
Per caso quel messaggio arriva nelle mani di Luca che, all’oscuro di ciò che sta accadendo, la porge a Nicolino, che viene così a conoscenza del tradimento di Ninuccia. Concetta riesce a far riappacificare la figlia con il marito e si appresta a preparare la cena della vigilia di Natale che prevede anche la partecipazione di Ninuccia e Nicolino.
Tommasino rientra a casa insieme all’amico Vittorio, l’amante di Ninuccia. La già difficile situazione è destinata a complicarsi ulteriormente quando Luca, ancora ignaro della faccenda, insiste affinché Vittorio si unisca alla cena. I due contendenti di Ninuccia si scontrano con violenza e Nicolino abbandona la figlia di Luca. Quest’ultimo, ormai cosciente dell’accaduto, viene colto da un ictus che lo costringe a letto.
Tre giorni dopo, il medico non esita ad esser chiaro con i familiari del malato facendo chiaramente comprendere che non vi è alcuna speranza. L’uomo nutre ormai un solo desiderio: che la figlia e il genero tornino insieme. Ma questa sua ultima volontà non fa altro che peggiorare la frattura tra i due coniugi; in pieno delirio, Luca scambia Vittorio per suo genero e fa riappacificare i due amanti proprio nel momento in cui torna a casa Nicolino e assiste alla scena. Tommasino comprende l’ulteriore aggravamento della situazione e, quando il padre gli domanda se gli piace il presepe, risponde con un timido “sì“.
Opera con qualche riferimento autobiografico individuabile nei nonni di De Filippo, riscuote un enorme successo tra un pubblico eterogeneo che vede annaspare il protagonista principale in uno stato di incoscienza dai problemi che affliggono la sua famiglia forse proprio come un popolo inconsapevole che potrebbe essere simbolizzato dal muto e statico presepe.
Estremamente amara, “Natale in casa Cupiello” affronta i problemi di incomunicabilità spesso presenti in numerose famiglie, intercalando aspetti comici e grotteschi alla drammaticità dei dialoghi.
Nel periodo in cui la sua opera viene replicata più volte, De Filippo si dedica anche al cinema e contribuisce alla lavorazione dei film “Tre uomini in frack” (1932), “Il cappello a tre punte” (1934) e “Quei due” (1935).
Il successo dei tre fratelli è vivo in tutta Italia, ma nel 1944, a causa di alcuni insanabili dissapori tra Peppino ed Eduardo, la compagnia si scioglie. La tensione tra i due fratelli non cesserà di esistere nemmeno in punto di morte.
Eduardo deve ricominciare a lavorare insieme alla sorella Titina. Nel 1945 scrive la commedia agrodolce “Napoli milionaria“, decidendo di far diventare parte integrante delle sue opere tematiche sempre più profonde, già da tempo inserite in alcune sue produzioni. Fonda la “Compagnia di Eduardo” e porta sulla scena “Napoli milionaria” proprio lo stesso anno in cui si conclude la Seconda Guerra Mondiale. Famoso fino a quel momento soprattutto per la sua comicità, Eduardo affronta un tema caldo incurante delle conseguenze. Eppure quella dura storia di una famiglia napoletana costretta a dibattersi tra fame, violenza e perdita di valori riscuote un enorme successo, anche perché l’autore riesce mirabilmente a fondere scene comiche ad altre drammatiche e talvolta tragiche. La battuta finale della commedia, «ha da passà ‘a nuttata» (deve terminare questa notte) diventerà un’espressione proverbiale ancora oggi molto diffusa.
Così come accaduto con tutte le sue opere, anche “Napoli milionaria” viene portata in scena in numerosi paesi europei. A Londra, rappresentata nel 1972, rimane per molto tempo in cartellone. La “Compagnia di Eduardo” continua a lavorare presentando opere che avranno un esito trionfale; nel 1946 sarà rappresentata “Questi fantasmi” e poco tempo dopo la celeberrima “Filumena Marturano“.
“Filumena Marturano“, forse una delle commedie più toccanti e profonde di Eduardo De Filippo, viene tradotta e rappresentata anche a Londra e a New York. Considerata uno dei capolavori assoluti di De Filippo, narra la storia dell’ex prostituta Filumena che, dopo ben 25 anni di convivenza con Don Mimì ed averne amministrato accuratamente la casa e i beni, si finge in fin di vita, grazie alla complicità di un medico e di un prete, per farsi sposare sul letto di morte.
Solo alla fine della cerimonia nuziale, rivela la verità al furibondo marito tratto in inganno e colto nel momento stesso in cui ha intrapreso una relazione con una giovane donna. Filumena dichiara di non aver agito correttamente perché ha tre figli di cui nessuno è a conoscenza, uno dei quali è di Don Mimì. L’uomo impiega parecchio tempo nel vano tentativo di capire quale dei tre figli è suo, ma Filumena non gli rivelerà mai il segreto. Solo alla fine Mimì è costretto ad acconsentire alle richieste della donna e ne adotta i tre figli. L’ inno all’amore materno e al valore dei figli viene racchiuso nella seguente frase di Filumena: «E figlie so’ figlie e so’ tutt’eguale!» (i figli sono figli e sono tutti uguali).
Eduardo ha scritto cinquantacinque commedie nel corso della sua vita, tutte opere di notevole interesse tra cui bisogna menzionare “Le bugie con le gambe lunghe” (1947), “La grande magia” (1948), “Le voci di dentro” (1948), “La paura numero uno” (1951), “Sabato, domenica e lunedì” (1959), “Il Sindaco del rione Sanità” (1960), “Gli esami non finiscono mai” (1973).
Molti sono stati i lavori di Eduardo per il cinema, come regista, attore e sceneggiatore. Tra le sue collaborazioni più note ricordiamo “Assunta Spina” (1948), “Napoli milionaria” (1950), “Filumena Marturano” (1951), “L’oro di Napoli” (1954), “Fantasmi a Roma” (1960).
All’immensa produzione artistica di Eduardo bisogna aggiungere anche le poesie di cui lo stesso autore ne spiega la nascita: «Dopo aver scritto poesie giovanili, come fanno più o meno tutti i ragazzi, questa attività divenne per me un aiuto durante la stesura delle mie opere teatrali. Mi succedeva, a volte, riscrivendo una commedia, d’impuntarmi su una situazione da sviluppare, in modo da poterla agganciare più avanti a un’altra, e allora, messo da parte il copione, per non alzarmi dal tavolino con un problema irrisolto, il che avrebbe significato non aver più voglia di riprendere il lavoro per chissà quanto tempo, mi mettevo davanti un foglio bianco e buttavo giù versi che avessero attinenza con l’argomento e i personaggi del lavoro interrotto».
Descritto dagli amici come un uomo molto generoso e sensibile, ma talvolta dispotico e duro, Eduardo, nel 1948, dà prova del proprio altruismo investendo tutti i suoi guadagni e indebitandosi con le banche per comprare e ristrutturare il Teatro San Ferdinando di Napoli, quasi del tutto raso al suolo dai bombardamenti avvenuti nella Seconda Guerra Mondiale.
Senza modificare l’architettura settecentesca dell’edificio, Eduardo realizza un teatro tecnicamente avanzato dove si esibirà in molte sue opere. Porterà sul palcoscenico anche testi di altri commediografi napoletani con il fine di donare al teatro napoletano una platea e un ambiente adeguati.
Impegnato attivamente nel sociale, durante la guerra devolve i suoi incassi per far sopravvivere e nascondere gli ebrei romani.
Il mandato di arresto dei tedeschi, quando scoprono l’accaduto, lo costringerà a nascondersi a Napoli. Le repliche dei suoi spettacoli saranno bloccate fino al 1945.
Nel 1979 fonda una scuola di Drammaturgia per giovani autori a Firenze. Due anni dopo ottiene la Cattedra di Drammaturgia presso l’Università La Sapienza di Roma e viene nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Sandro Pertini. Usa tale carica non solo per lottare per il suo teatro ma soprattutto per occuparsi dei minorenni reclusi nelle carceri nazionali. Anche se malato dal 1974, non smette mai di confrontarsi pubblicamente su temi sociali particolarmente scottanti.
Grande ammiratore di Pier Paolo Pasolini lo ricorda con dolcezza definendolo “una creatura angelica“. Proprio con Pasolini avrebbe dovuto girare “Teo-Porno-Kolossal“.
Il suo grande impegno nel porre in primo piano il dramma della detenzione minorile sarà ricordato al carcere Nisida di Napoli il 31 ottobre 2014; i ragazzi del carcere metteranno in scena una commedia di Eduardo.
Nella sua vita privata riesce a trovare un po’ di serenità solamente con la terza moglie, la scrittrice e sceneggiatrice Isabella Quarantotti. Dalla seconda moglie, Thea Prandi, ha due figli, Luca e Luisa. Quest’ultima si spegnerà purtroppo in tenera età.
La sua tradizione teatrale sarà mantenuta in vita, oltre dalle continue rappresentazioni delle sue opere, anche dal figlio Luca, superbo figlio d’arte, spentosi nel 2015.
Artista inquieto e malinconico a causa di molti dolori costretto ad affrontare, trova probabilmente nel teatro quella tranquillità che non riesce a cogliere nella vita quotidiana. E lo stesso Edoardo, nel suo ultimo discorso pubblico tenuto al Teatro Antico di Taormina il 1984, con queste parole descrive la sua esistenza: «[…] è stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro. Così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere! E l’ho pagato, anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato».
Si spegne a Roma nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre del 1984. Massimo esponente del teatro napoletano e della cultura italiana del Novecento, lo ricordo con alcuni suoi pensieri che mettono ben in evidenza la sua enorme profondità d’animo e la sua napoletanità.
Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male.
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I fantasmi non esistono. I fantasmi siamo noi, ridotti così dalla società che ci vuole ambigui, ci vuole lacerati, insieme bugiardi e sinceri, generosi e vili.
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Napule è ‘nu paese curioso: | è ‘nu teatro antico, sempre apierto. | Ce nasce gente ca senza cuncierto | scenne p’ ‘e strate e sape recita’.
Se un’idea non ha significato e utilità sociale non m’interessa lavorarci sopra.
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Voglio dire che tutto ha inizio, sempre da uno stimolo emotivo: reazione a una ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi.
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Quand’ero piccolo amavo i vecchi, poi a un’età giovanile, non so, frequentavo i vecchi e non i giovani. Perché dai vecchi io apprendevo la saggezza, apprendevo e stavo a sentire quello che mi dicevano. E in quell’epoca i vecchi erano più altruisti. Mi ricordo un particolare: non vedevo l’ora di diventare vecchio.
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In qualunque mestiere, in qualunque professione è bene tenere conto di questo: chi lavora egoisticamente non arriva a niente. Chi lavora altruisticamente se lo ritrova, il lavoro fatto.
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‘A vita è tosta e nisciuno ti aiuta, o meglio ce sta chi t’aiuta ma una vota sola, pe’ puté di’: «t’aggio aiutato».
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S’ha da aspettà, Amà. Ha da passà ‘a nuttata.
Voi sapete che io ho la nomina (non di senatore, per carità) che sono un orso, ho un carattere spinoso, che sfuggo… sono sfuggente. Non è vero. Se io non fossi stato sfuggente, se non fossi stato un orso, se non fossi stato uno che si mette da parte, non avrei potuto scrivere cinquantacinque commedie.
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Con la tecnica non si fa il teatro. Si fa il teatro se si ha fantasia.
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