Relegata in una posizione marginale nei libri di letteratura inglese e rivalutata solamente negli anni ’70, Virginia Woolf è adesso ritenuta una delle più grandi scrittrici del ‘900. Il cammino intrapreso da Henry James e Marcel Proust, che nella scrittura cercano di tradurre la fugacità delle emozioni, viene da Virginia continuato, così come si addentra in quella ricerca un altro gigante della letteratura inglese, James Joyce, cui spesso la nostra scrittrice viene paragonata. Nei suoi romanzi lo studio profondo del mondo interiore dei personaggi viene penetrato con la maestria di un professionista che si libera dagli schemi convenzionali del realismo psicologico per approdare al cuore della precarietà delle sensazioni, o come la stessa scrittrice definisce quell’incedere privo di certezze che rimanda alla stessa nostra esistenza, “l’attraversamento delle apparenze“. La tradizione letteraria viene abbandonata per dar spazio ad una nuova tecnica espositiva, lo stream of consciousness, quel flusso della coscienza che nel monologo del personaggio con il suo essere più recondito vede svilupparsi una narrazione altalenante tra continui dislocamenti posteriori e anteriori, accompagnati nello stesso tempo da introspezioni e memorie sorte dall’ambiente che lo circonda.
Scrittrice anticonvenzionale e polemica privilegia la lettura di opere che guardano con occhi diversi la società dei suoi tempi. La sua personalità, sicuramente di non facile interpretazione, ha aperto la via a molti studi, spesso con conclusioni divergenti, che focalizzano la loro attenzione soprattutto a quel “Diario di una scrittrice“, pubblicato dopo la sua morte, e di cui sembra non siano presenti alcune parti che il marito Leonard non ha voluto rendere pubbliche.
Colta, anticonformista, amante della vita, ma nello stesso tempo fragile e insicura, Adeline Virginia Stephen nasce a Londra il 25 gennaio del 1882 da una famiglia benestante e colta. I genitori, entrambi vedovi, hanno quattro figli dal primo matrimonio cui ne aggiungono altri quattro dopo le nuove nozze. Virginia è la penultima di otto figli.
La sua infanzia scorre in modo consono alle famiglie dell’alta società vittoriana: riceve una buona istruzione a casa e apprende nel medesimo tempo quelle convenzioni che la preparano ad un ingresso da ragazza “perbene” nella buona società londinese. Nutre una venerazione per la bella e briosa madre che muore prematuramente, segnando così, insieme al tentativo di stupro di uno dei suoi fratellastri, la giovinezza di Virginia.
Due i traumi che segneranno in modo inesorabile la psiche della futura scrittrice, da giovanissima già vittima di angosce, e che la costringeranno, nei momenti più duri della sua esistenza, a rallentare la sua attività creativa accrescendo così quel senso di ricorrente insoddisfazione di un animo estremamente sensibile e soggetto spesso a profonde crisi depressive che l’attanaglieranno tutta la vita.
Pur non frequentando l’università, ha libero accesso alla ricca biblioteca paterna in cui ama sprofondare che arricchirà la sua formazione culturale. Ma è degli anni successivi alla morte del padre, avvenuta nel 1904, l’ulteriore crescita culturale di Virginia che pone le basi al suo futuro di scrittrice, un cammino purtroppo però caratterizzato da frequenti crisi nervose e da un primo fallito tentativo di suicidio.
Così scriverà Virginia riferendosi alla morte del padre: «Cosa sarebbe successo? Nulla. Né scrittura, né libri». Tuttavia viene perseguitata da lancinanti sensi di colpa per non aver mostrato in modo aperto il profondo affetto verso il padre.
Il suo ricco bagaglio culturale le consente giovanissima di collaborare al “Times Literary Supplement“, dove si occupa di critica letteraria, e di contribuire alla fondazione del noto circolo letterario “Bloomsbury“, punto d’incontro dei maggiori intellettuali e artisti del periodo fortemente avversi alle convenzioni sociali, religiose, artistiche e sessuali dell’epoca vittoriana e accogliendo nel gruppo anche omosessuali e bisessuali.
Virginia è molto attiva e si prodiga nel dare gratuitamente ripetizioni serali alle donne lavoratrici, militando nello stesso tempo nei gruppi delle suffragette.
Sembrano un po’ alleviate le sue sofferenze adolescenziali, che dopo la morte della madre e della sorellastra Stella, le fanno percepire la distanza e l’indifferenza dell’universo maschile di cui ne ha già conosciuto anche la violenza, grazie a questo suo rilevante impegno sociale. Ma altri dolorosi lutti investiranno la sua vita: muore di tifo uno dei suoi fratelli e l’amata sorella Vanessa si sposa. Non appartiene più completamente a lei e quella complicità che le ha sempre unite sembra vacillare scaraventando nello sconforto Virginia. Una vita indubbiamente segnata dal dolore e da frequenti tentativi di suicidio, ma anche costellata da significativi successi letterari.
Nel circolo Bloomsbury Virginia incontra Leonard Woolf, un intellettuale socialista che partecipa attivamente alla politica grazie ad un’intensa attività giornalistica, sebbene sia privo di quella preparazione culturale di cui è in possesso la giovane donna.
I due convolano a nozze e Virginia decide di prendere il cognome del marito. È il 1912 e la nostra scrittrice nel suo cammino tempestato da numerosi dolori sposa quell’uomo attento e premuroso che le resterà accanto per tutta la vita, nonostante i frequenti crolli psichici cui è soggetta.
Dopo un altro tentativo di suicidio, il marito cerca di aiutarla a trovare il suo equilibrio e la convince a scrivere. Insieme a lei fonda una casa editrice, la Hogarth Press, e nel 1917 viene pubblicato il primo libro di Virginia, “La crociera“.
Romanzo di formazione legato ancora alla tradizione del periodo, narra la storia di Rachel, una ragazza che desidera avventurarsi alla scoperta del mondo e che riesce in quel percorso a conoscere se stessa. Lo stesso stile si può riscontrare nel successivo romanzo pubblicato nel 1919, “Notte e giorno” che riscuote pareri discordanti nella critica per l’indagine psicologica effettuata, ma che ancora risente dell’influenza del tradizionale romanzo ottocentesco.
Nel 1922 avviene la svolta letteraria e la rottura con la tradizione con il romanzo “La stanza di Jacob“, la cui figura maschile è ispirata al fratello deceduto in giovane età. Per la prima volta Virginia sperimenta la tecnica narrativa del flusso della coscienza, con un personaggio che vive attraverso gli sguardi e i pensieri altrui in un fluire di sensazioni, di ricordi e di emozioni sperimentate da persone che lo conoscono o da lui incontrate per caso.
Quasi un ritratto impressionista con tenui pennellate di pensieri, nel romanzo si comincia già a scorgere lo stile inconfondibile della scrittrice che decide coraggiosamente di infrangere le regole del realismo psicologico grazie all’influenza di James Joyce e di Marcel Proust, che la condurranno a liberarsi in modo definitivo dagli schemi stilistici e tematici del romanzo naturalista.
Ancora non si può parlare di quei capolavori che segneranno la letteratura del Novecento e che giungeranno solo qualche anno dopo con “Mrs Dolloway” (1925), “Gita al faro” (1927) e “Orlando” (1928).
«Non c’era nessuno. Le parole svanirono. Allo stesso modo nell’aria svanisce un razzo, e le scintille, attraversata la notte, si arrendono, e il buio cala, e si posa sulle case e sulle torri, e i fianchi desolati delle colline si ammorbidiscono e scompaiono. Ma anche se sono scomparse, la notte è piena di loro; perso il colore, senza più finestre, le case esistono più massicciamente, emanano ciò che il pieno giorno non riesce a trasmettere – l’affanno e la sospensione di ciò che è ammassato nel buio; raggomitolato nel buio, privo del sollievo che porta l’alba, quando inonda di bianco e di grigio le pareti, e illumina ogni finestra, solleva la nebbia dai campi, mostra le mucche rossicce che vi pascolano in pace, e tutto riporta all’occhio, e tutto esiste di nuovo. Sono sola; sono sola! gridò, accanto alla fontana di Regent’s Park (fissando l’indiano e la sua croce), come a mezzanotte, forse, quando si sciolgono tutti i legami, e il paese ritorna alla sua forma antica, com’era quando i Romani vi sbarcarono, coperto di nuvole, quando ancora le colline non avevano nome e i fiumi serpeggiavano, non si sapeva verso dove – tanto era il buio…» ( Tratto da “Mrs Dollway“).
Ho riportato un brano tratto dal primo romanzo in cui quel flusso della coscienza è ormai plasmato alla perfezione per ricordare a me stessa e a chi vorrà conoscere questa scrittrice la sua tecnica narrativa rivoluzionaria in cui la trama e i personaggi occupano un ruolo secondario rispetto a quella catena di sensazioni, impressioni e reazioni, sovente stimolate da fattori ambientali esterni e che prendono vita nel mondo interiore dei “protagonisti” dei suoi romanzi. Protagonisti virgolettato perché la protagonista assoluta dei suoi romanzi è la complessità della mente umana rivelata attraverso i diari dei personaggi, o attraverso le loro memorie, in modo disordinato e confuso, così come lo è la vita stessa. Il capolavoro di Salvador Dalì, “La persistenza della memoria“, potrebbe ben rappresentare la produzione letteraria di Virginia Woolf con le sue scansioni non cronologiche ed una realtà percepita come un inarrestabile flusso di sensazioni. Nell’incessante tentativo di comunicare tutte le nostre percezioni, la Woolf ne estrapola le più incisive definendole “momenti di visione“. Le persone che la scrittrice decide siano i protagonisti vengono alla luce tramite i loro ricordi e quelli di coloro che li circondano. Una trama che sorge dunque da una fusione di immagini simboliche, sostenute dallo scorrere morbido e tenue di memorie e allegorie che la scrittrice cerca di cristallizzare e di trasferire su carta. Poiché nella nostra mente convivono presente e passato la comunicazione di tutto ciò che sfugge non può essere narrata seguendo gli schemi di quel romanzo tradizionale chiuso a certe inafferrabili divagazioni. Ed allora ci si muove dentro incessanti monologhi interiori che solo per un breve istante riescono a dar vita ad improvvise illuminazioni destinate a sbiadire e a sprofondare nel dimenticatoio della spenta vita quotidiana. Ma Virginia afferra quell’immenso paesaggio interiore e lo comunica mirabilmente in questo primo romanzo del flusso della coscienza in cui il tempo assume due tipi di scansione: quella facilmente individuabile rappresentata dal ticchettio degli orologi e dai rintocchi del Big Ben, ed una temporalità interiore che sfugge al nostro controllo e di cui la nostra scrittrice ne cattura quell’attimo magico da noi appena percepito e dimenticato in fretta, e ne allunga la durata con lo scopo di protrarlo all’infinito.
Non a caso il titolo che inizialmente pensa di dare al romanzo è “Le ore“, così come è stato intitolato l’incantevole film del 2002 tratto dall’omonimo romanzo di Michael Cunningham e ispirato proprio a “Mrs Dalloway” in cui la vita di tre donne, tra cui la stessa Virginia, appartenenti ad epoche differenti, vengono accomunate dal desiderio di vivere la loro esistenza in modo completamente diverso da quello preteso dalla società.
L’equilibrio interiore può essere raggiunto solamente per pochissimi istanti, come si può avvertire in quelle sensazioni fluttuanti e nebulose che raccontano storie senza tempo come le onde del mare che separano la casa dei protagonisti del romanzo “Gita al faro” dallo stesso faro immobile che sembra illuminare flebilmente l’interiorità umana, di cui i desideri più intimi non vengono condivisi. Ogni personaggio infatti cela una parte del proprio animo, quel lato fragile che si riesce ad avvertire attraverso le sue azioni, ma che lascia venga inghiottito negli abissi del proprio io per pudore o perché lo considera troppo personale per condividerlo con gli altri. Nei romanzi di Virginia Woolf è impossibile non identificarsi con qualcuno dei suoi personaggi perché son ben palesi le fragilità e i dilemmi esistenziali degli esseri umani di qualsiasi periodo storico. Nella magia di un attimo possiamo entrare in armonia con il mondo, sembra volerci sussurrare quella “cercatrice inquieta”, così come ama definirsi l’ammiratrice di Sigmund Freud con cui riesce a stabilire un incontro nel 1939 e vi si confronta riguardo le terribili conseguenze di un altro conflitto mondiale.
Il suo logorante lavoro di ricerca delle nostre sensazioni più intime, che appaiono disordinatamente e senza alcun ordine cronologico, sfianca Virginia. Alla fine di ogni sua creazione avverte una terribile sensazione di svuotamento. Le sue fobie l’assalgono implacabilmente e, dopo periodi più o meno lunghi di pausa, ricomincia a scrivere. La scrittura sembra placare per un po’ il suo animo, ma non riesce ad annientare quelle nevrosi ormai incancrenitesi nel suo essere durante l’infanzia e l’adolescenza e che sfoceranno in un’insopportabile angoscia acuita dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e dal terrore di un’invasione tedesca che avrebbe causato non pochi problemi al marito di origine ebraica.
Ma prima di compiere con inquietante premeditazione il gesto estremo di togliersi la vita, Virginia dona altre opere al mondo.
Tra queste meritano un’attenzione particolare “Orlando” e “Una stanza tutta per sé“.
La biografia immaginaria di “Orlando“, che percorre ben tre secoli di storia inglese, funge da pretesto per parlare di una figura da lei amata e celata nelle sembianze di un nobile dell’età elisabettiana. Un poema d’amore rivolto alla scrittrice Vita Sackville-West con cui Virginia intrattiene una relazione che va oltre la comune passione per la narrativa e che sembra abbia rappresentato il suo unico grande amore, oltre alla tiepida ma leale relazione con Leonard.
Una storia del passato vissuta durante gli anni in cui il femminismo di Virginia si esprime in modo particolarmente intenso e che la scrittrice condensa nella sua opera “Una stanza per sé” (1929).
Un saggio che denuncia l’esigua presenza femminile nella letteratura a causa della repressione attuata dagli uomini nei confronti delle donne scrittrici.
Con quest’opera sembra concludersi quell’attività febbrile di scrittura di Virginia: la depressione esplode ancora una volta a causa della lontananza da Vita e della dirompente ascesa del nazismo. Le sue ossessioni sull’imbarbarimento di un mondo che sente sempre più distante da sé sfociano nella produzione di altre opere in cui si evidenzia lo stato d’animo cupo e pessimista della scrittrice. “Le onde” (1931), “Gli anni” (1937) e “Tra un atto e l’altro” (1941) evidenziano l’impossibilità della donna di sopravvivere ad un mondo così violento e dominato dalla solitudine e dall’incomunicabilità. Il 28 marzo del 1941, dopo aver scritto una lettera di commiato al marito, Virginia Woolf si riempie le tasche di pietre e si lascia scivolare nel fiume Ouse, a Rodmell, piccolo paesino del Sussex dove si rifugia la coppia nei momenti più difficili.
Di seguito la lettera struggente che questa straordinaria scrittrice lascia a Leonard e alcuni suoi pensieri più significativi.
Carissimo,
sento con certezza che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo attraversare ancora un altro di quei terribili periodi. E questa volta non ce la farò a riprendermi. Comincio a sentire le voci, non riesco a concentrarmi. Così faccio la cosa che mi sembra migliore. Mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso per me tutto ciò che una persona può essere. Non credo che due persone avrebbero potute essere più felici, finché non è sopraggiunto questo terribile male. Non riesco più a combattere. Lo so che sto rovinando la tua vita, che senza di me tu potresti lavorare. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco nemmeno a esprimermi bene. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo a te tutta la felicità che ho avuto nella mia vita. Hai avuto con me un’infinita pazienza, sei stato incredibilmente buono. Voglio dirti che – lo sanno tutti. Se qualcuno avesse potuto salvarmi questo qualcuno eri tu. Tutto se ne è andato via da me, tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinarti la vita.
Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.
V.
Ho avuto un istante di grande pace. Forse è questa la felicità.
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La piú inutile delle classi, i ricchi con una patina di cultura.
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Non c’è cancello, nessuna serratura, nessun bullone che potete regolare sulla libertà della mia mente.
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Leggere è un processo molto più lungo e complicato del vedere. Forse il modo più veloce di comprendere gli elementi che usa il narratore non è leggere, ma scrivere. Sperimentare in prima persona i pericoli e le difficoltà delle parole.
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Jane Austen ha scritto romanzi. Sarebbe bene che i suoi critici li leggessero.
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Senza fiducia in noi stessi siamo come bambini nella culla. E come possiamo generare questa qualità imponderabile, che è tuttavia così inestimabile, più rapidamente? Col pensare che gli altri sono inferiori a noi stessi.
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La letteratura è cosparsa di relitti di uomini che hanno dato importanza oltre ragione alle opinioni degli altri.
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Io ho perso degli amici, alcuni a causa della morte, altri per una pura incapacità di attraversare la strada.
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La bellezza del mondo è una lama a doppio taglio, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore.
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La vita è un sogno dal quale ci si sveglia morendo.
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Che cosa sono i nostri eruditi se non i discendenti delle streghe e degli eremiti che un tempo si ritiravano nelle caverne e nei boschi a distillare erbe, a interrogare toporagni e ad annotare il linguaggio delle stelle?
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È una cosa strana, il silenzio. La mente si fa simile a una notte senza stelle.
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Siamo dunque fatti in modo tale da dover prendere la morte a piccole dosi, giorno per giorno, per continuare ad affrontare l’impresa di vivere?
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[…] Virginia Woolf scrive: « […] non c’è “io” in Cime tempestose. Non ci sono istitutrici. Non ci sono padroni. C’è l’amore, ma non è l’amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L’impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. Rivolgeva lo sguardo a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine e sentiva in sé la facoltà di riunirlo in un libro. […] Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti; con pochi tocchi indicare lo spirito di una faccia che non aveva più bisogno di un corpo; parlando della brughiera sapeva far parlare il vento e ruggire il tuono.» Nata il 30 luglio 1818 a Thornton, dal secondo anno di età conduce la maggioranza della sua breve esistenza a Haworth, un piccolo paesino della contea inglese del West Yorkshire. Quintogenita di un reverendo irlandese e di una donna del Galles piuttosto sottomessa al marito, Emily conosce a malapena la propria madre, ormai malata a causa di debilitazioni dovute alle precedenti maternità e ad una vita di stenti condotta in quello sperduto paesino di cinquemila anime situato tra le brughiere e le alture settentrionali dei Monti Pennini. Dopo la morte della madre, avvenuta quando la piccola Emily ha appena tre anni, il padre decide di mandare le quattro figlie maggiori in un collegio di accoglienza per bambini indigenti a Cowen Bridge, nel Westmorland. Sfiancate da un clima rigido, dalla severità del collegio e dalla scarsità del cibo loro somministrato, due sorelle di Emily muoiono a causa della tubercolosi nel 1825. Charlotte ed Emily faranno poi ritorno a casa l’anno seguente, ma la loro salute risentirà irrimediabilmente di quegli anni trascorsi a Cowen Bridge. Non è di aiuto alla cagionevole salute di Emily il fanatismo religioso del padre che considera l’abbigliamento e il cibo beni superflui e si relaziona con i figli in modo poco consono alla loro età parlando loro di religione e filosofia. Nemmeno la zia di Emily, che dopo la morte della sorella si era trasferita nella casa Brontë, riesce ad instaurare un rapporto significativo con i nipoti. È Tabhita, la governante che per circa trentanni servirà la famiglia, la figura che alimenterà la fervida fantasia di Emily con i suoi racconti di antiche leggende contadine che trascineranno la ragazzina in quel mondo misterioso e affascinante popolato da spiriti ed epiche avventure. E da giovanissima comincia ad appassionarsi alla brughiera intorno ad Haworth e alla scrittura. Brevi e faticosi gli spostamenti di Emily, nonostante le continue sollecitazioni della sorella Charlotte. La nostra scrittrice non ama vivere in società, quel poco che conosce la induce a distaccarsene in fretta e preferisce tornare definitivamente nella sua dimora per dar nutrimento al suo desiderio di solitudine e perdersi nella sua amata brughiera. E proprio tra le brume di quel paesaggio aspro nasce l’unica opera di Emily, destinata a godere di quell’immortalità dei grandi della letteratura. Nel 1847, con lo pseudonimo di Ellis Bell, e un piccolo contributo per le spese editoriali, viene pubblicato quel “feroce e perverso” romanzo “Cime Tempestose” che troverà solo trent’anni dopo il riconoscimento del pubblico e della critica. L’anno seguente si spegne, minato dall’abuso di alcool e oppio, l’adorato fratello di Emily, Branwell. E con lui la breve vita di questa grande scrittrice che, dopo aver contratto la tisi durante la prima giovinezza, decide, a causa di quel devastante dolore, di rifiutare le cure che l’avevano tenuta in vita fino a quel momento. Emily muore il 19 dicembre del 1848, qualche mese dopo il decesso del fratello. La vicenda della passione tormentata tra il trovatello Heathcliff e Catherine, la figlia dell’uomo che adotta il ragazzino, viene narrata dalla nutrice e domestica della famiglia della ragazza. I due protagonisti, inquieti e ambigui, eternamente uniti al di là dell’esistenza terrena, sembrano aver dato corpo alle fantasie più recondite della timida Emily simbolizzando nelle sembianze di un uomo e di una donna quei due volti presenti nell’animo umano. E non riesce difficile ad un lettore introspettivo trovare qualcosa di sé in quei due protagonisti tremendamente umani e immaturi che coinvolgono nella tragedia anche quella miriade di personaggi, spesso innocenti, il cui fardello di un amore distrutto da sconsiderati comportamenti peserà per sempre sulle loro spalle. La narrazione di Emily, affidata alla nutrice, affascina il lettore sin dalle prime pagine riuscendo ad essere inspiegabilmente avvolto dalla bellezza aspra della brughiera, in cui si celano misteri inquietanti di spiriti amati dal misticismo nordeuropeo, ma consapevole di non essere in grado di cogliere l’intrinseca e sinistra essenza di quei labili confini tra la vita e la morte velati da una nebbia onnipresente che ammanta la tragica vicenda. Ad una delle scrittrice più amate della capanna, in grado di scavare dentro gli abissi del cuore umano e fortemente attuale per lo stile e le tematiche, dedichiamo una raccolta di alcuni brani tratti dal suo celebre romanzo. […]
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