“L’eternità in un attimo”, Henri Cartier-Bresson

 

Henri Cartier-Bresson, biografia, stile e opere
Non dissimile dalla pittura o dal disegno, la fotografia, per mezzo di un sistema di segni, consente di inviare dei messaggi che, al di là del contenuto, esprimono la sensibilità dell’autore.
Dentro una fotografia si può cogliere il pensiero di chi effettua il fatidico scatto, indubbiamente inscindibile dalla percettività dell’osservatore, così come accade per tutte le forme di arte. E la fotografia, talvolta, possiede un’efficacia più elevata del linguaggio cinematografico.
Il fotografo è un osservatore silenzioso che si aggira quasi come un segugio osservando il mondo per poterne poi catturare quelli che ritiene siano i momenti più significativi. Operata la scelta del soggetto da immortalare, decide come inquadrarlo interpretando in modo originale e creativo la realtà e creando così una vera e propria opera d’arte, sebbene sia priva della terza dimensione e l’immagine possa apparire statica e convenzionale, in particolar modo se è a colori. Nonostante questi limiti, è un valido strumento di comunicazione perché può esprimere il pensiero di colui che la usa per narrare una storia, per parlare di sé e per trasmettere la sua peculiare maniera di relazionarsi al reale.
Henri Cartier-Bresson's 1957 Leica selfieÈ il caso di uno dei fotografi più rilevanti del mondo, un fotografo che è riuscito a tramutare la fotografia in una forma d’arte autonoma. Impossibile, quando si parla di fotografia artistica, non citare Henri Cartier-Bresson.
Noto in tutto il mondo per le fotografie scattate nel “momento decisivo“, così come definisce l’attimo imprevisto e degno di essere immortalato, le immagini che ha donato al mondo sono, tranne rari casi, del tutto senza posa. Il fotografo francese, infatti, ritrae le persone quando non si rendono nemmeno conto di stare per essere fotografate. Uno scatto che avviene quando Bresson ritiene sia il momento giusto e decisivo per afferrarne l’espressività. Per tale ragione le sue immagini sono caratterizzate da singolare realismo e spontaneità. Indifferente alle tecniche da usare, Bresson rivolge la sua attenzione all’armonia di un attimo irripetibile da afferrare tempestivamente, mutando così il modo di concepire la fotografia, non più intesa come ritratti in posa con sorrisi d’occasione, ma come osservazione continua della vita quotidiana mirata a conservare gli aspetti più sfuggenti e profondi della realtà che ci circonda.

Henri Cartier-Bresson "Pen, Brush and Camera" 1998.

Henri Cartier-Bresson “Pen, Brush and Camera” 1998.

Emblematico il suo pensiero su quel momento di misteriosa armonia sorta in un’immagine in movimento: «c’è un istante in cui tutti gli elementi che si muovono sono in equilibrio».
Usa per tutta la vita una Leica 35 mm con un obiettivo di 50mm per quasi tutte le foto e probabilmente avrebbe riso dei nuovi e sofisticatissimi apparecchi fotografici dei nostri giorni o delle innumerevoli scuole di fotografia che proliferano come funghi per insegnare, anche a chi è sprovvisto di sensibilità artistica, quelle tecniche di certo poco utili per comprendere il preciso momento da catturare o il soggetto da ritrarre. Bresson infatti afferma: «Ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove s’impara di tutto e alla fine non si sa niente. Non esiste una scuola per la sensibilità. Ci vuole un certo bagaglio intellettuale.»

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Nessuna scuola può insegnare un’arte che così ben definisce il nostro fotografo: «La fotografia non è come la pittura. Vi è una frazione creativa di un secondo quando si scatta una foto. Il tuo occhio deve vedere una composizione o un’espressione che la vita stessa propone, e si deve saper intuire immediatamente quando premi il clic della fotocamera. Quello è il momento in cui il fotografo è creativo. Oop! Il momento! Una volta che te ne accorgi, è andato via per sempre».


Nato a Chanteloup-en-Brie, piccolo paesino vicino Parigi, il 22 agosto del 1908, da genitori benestanti, grazie alla stabilità economica della famiglia si dedica serenamente alle sue passioni, inizialmente indirizzate alla pittura.
Lo zio, un artista molto dotato, impartisce al nipote le nozioni elementari di pittura ad olio.
A diciannove anni Bresson continua gli studi pittorici presso lo studio di André Lhote, pittore e scultore cubista,  che riesce ad infondere nei suoi studenti un grande interesse per le opere classiche e quelle contemporanee. Un esperto maestro di fotografia pur non usando la macchina fotografica, afferma senza esitazione Bresson quando si riferisce alla grandezza di Lhote.
Alla passione per la pittura Bresson affianca quella della lettura; sin da giovane è un grande lettore di Dostoevskij, Schopenhauer, Rimbaud, Nietzsche, Mallarmé, Freud, Proust, Joyce, Hegel, Engels e Marx.

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Affascinato dal surrealismo, è proprio tale movimento artistico a renderlo consapevole della sua incapacità di esprimersi attraverso la pittura. Quell’amara presa di coscienza lo induce a distruggere quasi tutte le prime tele realizzate.
Studia Arte e Letteratura Inglese all’università di Cambridge e a ventidue anni si reca in Costa d’Avorio, in quel periodo ancora colonia francese. Ha già con sé una macchina fotografica, ma la passione che lo accompagnerà per tutta la vita non è ancora divampata.
In Africa contrae la malaria ed è costretto a far ritorno in Francia l’anno seguente.

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Nello stesso anno una foto di Martin Munkacsi, noto fotografo ungherese, lo emoziona profondamente.
La foto in questione, dal titolo “Tre ragazzi sul Lago Tanganyika“, ritrae l’immagine di tre ragazzi che giocano tra le onde.

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Martin Munkacsi, “Tre ragazzi sul lago Tanganyika”

Bresson, nell’osservare questa foto, si rende conto del potente linguaggio espressivo della fotografia e acquista una piccola macchina fotografica Leica, pratica e facile da usare, decidendo di immortalare quei momenti della vita che meritano di restare eterni.
Quell’apparecchio fotografico, veloce e discreto, diventa un’“estensione del suo stesso occhio” e la sua personalità schiva e poco avvezza alle relazioni umane esplode nella sua indagine senza sosta alla ricerca di quel fugace attimo da afferrare silenziosamente.
Nello stesso periodo studia cinematografia a New York insieme al fotografo statunitense Paul Strand, torna successivamente in Francia e lavora come assistente del regista francese Jean Renoir collaborando alla realizzazione di film e documentari.
Appaiono le sue prime fotografie, esposte inizialmente a New York e a Madrid.
Lo scatenarsi della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, lo vede in prima linea nella Resistenza Francese, e l’anno dopo viene catturato dalle truppe naziste che lo rinchiudono in un campo di prigionia per quasi tre anni. Quando, dopo vari tentativi falliti, riesce a fuggire e tornare in Francia, si dedica insieme ad altri fotografi a documentare l’occupazione nazista e successivamente la liberazione francese.
Con altri noti fotografi dell’epoca, fonda, due anni dopo la fine del conflitto, l’agenzia fotografica tutt’oggi esistente Magnum Photos che assegna ad ogni membro una parte del mondo ove realizzare i propri servizi fotografici.

World War II. Liberation. Alsace. 1944.

World War II. Liberation. Alsace. 1944.

Nello stesso anno l’Ufficio della Guerra degli Stati Uniti gli commissiona la realizzazione di un documentario sul ritorno in Francia dei prigionieri di guerra e dei deportati di cui ne riporto uno spezzone.

Le Retour” (Il Ritorno) esce in America nel 1947 e, per onorare il lavoro svolto dall’ormai noto fotografo, il Museum of Modern Art (MOMA) allestisce una retrospettiva dedicata a Bresson. Il debutto si accompagna alla pubblicazione del primo libro del fotografo: “The Photographs of Henri Cartier-Bresson“.

Course cycliste « Les 6 jours de Paris », vélodrome d'Hiver, 1957.

Course cycliste « Les 6 jours de Paris », vélodrome d’Hiver, 1957.

Dopo aver realizzato alcuni servizi fotografici in India e in Cina, Bresson pubblica nel 1952 il libro “Images à la sauvette” (Il Momento Decisivo) contenente centoventisei foto e la concezione dell’artista riguardo la fotografia: «Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l’immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale.
Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere
».

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Con Bresson sorge “la teoria del momento decisivo” che attribuisce al fotografo il compito di spiare la vita e coglierla di sorpresa con immagini volte ad arrestare gli istanti in cui un evento si esprime al massimo della sua potenzialità.
Verso la metà degli anni sessanta, il fotografo comincia gradualmente ad abbandonare la fotografia, fatta eccezione per alcuni ritratti di personaggi famosi, per dedicarsi alla sua antica passione della pittura. Ed insieme alla moglie e alla figlia istituisce la “Fondation Henri Cartier-Bresson” in cui, insieme alle sue opere, verranno esposte anche quelle di altri artisti emergenti.

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Si spegne il 3 agosto del 2004 a Céreste (Alpi dell’Alta Provenza) lasciando al mondo un dono incommensurabile di momenti apparentemente insignificanti della vita quotidiana e che spesso sfuggono alla nostra attenzione schiacciati dalla fretta o dell’incapacità di coglierne la bellezza. Frazioni di secondo di una realtà fugace che il fotografo ha immortalato nell’arte in diversi luoghi del pianeta.
Di seguito alcune sue citazioni e una raccolta delle sue fotografie più dense di significato.

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“Il muro di Berlino”, 1962

Ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove si impara di tutto e alla fine non si sa niente, non si sa niente di niente. Non esiste una scuola per la sensibilità. Non esiste, è impensabile. Ci vuole un certo bagaglio intellettuale.
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Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso un solo momento.
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Quando mi interrogano sul ruolo del fotografo ai nostri tempi, sul potere dell’immagine, ecc. non mi va di lanciarmi in spiegazioni, so soltanto che le persone capaci di vedere sono rare quanto quelle capaci di ascoltare.
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Si parla sempre troppo. Si usano troppe parole per non dire niente. La matita e la Leica sono silenziose.
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Non esiste una scuola per la sensibilità.
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Guardi certi fotografi di oggi: pensano, cercano, vogliono, in loro si avverte la nevrosi della nostra epoca attuale… ma la gioia visiva, quella in loro non la sento. Si sentono delle ossessioni, il lato morboso, a volte, di un mondo suicida…
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A volte mi chiedono: “Quale è la foto che preferisci tra quelle che hai realizzato?”. Non saprei, non mi interessa. Mi interessa di più la prossima fotografia, o il luogo che visiterò.
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…ogni volta che premo il pulsante dello scatto, è come se conservassi ciò che sta per sparire.
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La pubblicità è il braccio armato di un sistema che senza di essa crollerebbe. Ci costringe a comprare.
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Una volta, non ricordo più dove, mi hanno chiesto cosa pensavo della Leica e ho detto che poteva essere un bacio bollente e appassionato, poteva essere anche un colpo di rivoltella, poteva essere il lettino dello psicanalista. Si può fare tutto con la Leica.
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Per me la fotografia non è cambiata dalle sue origini, tranne negli aspetti tecnici, che non sono la mia maggiore preoccupazione.
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Ricordo con precisione gli avvenimenti che circondano ogni fotografia, indipendentemente dalla distanza temporale o geografica.
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Si parla di “lavoro”, ma una cosa è certa, la fotografia non è un lavoro. Noi non lavoriamo; ci concediamo un “duro divertimento”, come mi diceva un amico medico.
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La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell’intuito e della spontaneità. […] Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l’immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere.
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Henri Cartier-Bresson, biografia, opere, stile fotografico e citazioni

Per guardare bene, bisognerebbe imparare a diventare sordomuti.
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Ho scoperto la Leica; è diventata il prolungamento del mio occhio e non mi lascia più.
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Tutte queste scuole di fotografia non sono una cosa seria.
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In ogni caso, sfocata o meno, nitida o meno, una fotografia buona è una questione di proporzioni, di rapporti tra neri e bianchi.
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Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso un solo momento.
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La curiosità è essenziale alla fotografia, ma la sua spaventosa controparte è l’indiscrezione, che è una mancanza di pudore.
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Uno ha un talento o non ce l’ha. Se hai un talento, ne sei responsabile. Ci puoi lavorare sopra.
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Messico, 1934

La mia grande passione è il tiro fotografico.
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È attraverso un’economia di mezzi e soprattutto con l’abnegazione di sé che si raggiunge la semplicità espressiva.
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"Three Juveniles", Montreal, Canada, 1965.

“Three Juveniles”, Montreal, Canada, 1965.

Più di tutto, io cerco un silenzio interiore. Cerco di tradurre la personalità e non una sola espressione.
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Non è la mera fotografia che mi interessa. Quel che voglio è catturare quel minuto parte della realtà.
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La fotografia è un’azione immediata, il disegno è una meditazione.
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Nella fotografia le cose più piccole possono diventare un grande soggetto, un insignificante dettaglio umano può diventare un leit-motiv. Noi vediamo e facciamo vedere come testimoni al mondo intorno a noi l’evento che, nella sua naturale attività, genera un organico ritmo di forme.
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Sarajevo, Yugoslavia, 1965

Un ritratto è per me la cosa più difficile. Devi provare a mettere la macchina fotografica tra la pelle di una persona e la sua camicia.
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Il tempo corre e fluisce e solo la nostra morte riesce a raggiungerlo. La fotografia è una mannaia che nell’eternità coglie l’istante che l’ha abbagliata.
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Ciò che desideravo di più di tutto era di afferrare nei confini di una singola fotografia, l’intera essenza di una situazione, che si stava svolgendo davanti ai miei occhi.
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Talvolta si centra il punto in pochi secondi, altre volte invece il procedimento richiede ore o giorni. Comunque sia, non esiste un piano standard, nessuno schema di lavoro. Occorre stare sempre all’erta con il cervello, l’occhio e il cuore e avere agilità nel corpo.
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Il fotografo deve essere sicuro, mentre è in presenza della scena che si sta dispiegando, di non aver perso alcun passaggio, di aver realmente espresso il significato unitario della scena. Dopo sarebbe troppo tardi. Il fotografo non può far retrocedere gli avvenimenti, per fotografarli di nuovo.
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La composizione deve essere una delle nostre costanti preoccupazioni, ma al momento di fotografare può nascere solo dalla nostra intuizione perché noi dobbiamo catturare il momento fuggitivo e tutte le relazioni coinvolte sono in movimento.
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Vi accorgerete allora, quando è troppo tardi, con terribile chiarezza, dove avete fallito. A questo punto, ricorderete il sentimento rivelatore che avevate provato mentre stavate fotografando.
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È sufficiente che un fotografo si senta a suo agio con la sua macchina e che questa sia adatta al lavoro che vuoi fare. Il modo di usarla, le sue tacche, le sue velocità di esposizioni e tutto il resto dovrebbero diventare automatici, come il cambiare una marcia in automobile.
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Per “significare” il mondo, bisogna sentirsi coinvolto in ciò che si inquadra nel mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione, sensibilità, senso geometrico.
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La mia grande passione è il tiro fotografico, che è poi un disegno accelerato, fatto di intuizione e di riconoscimento di un ordine plastico, frutto della mia frequentazione dei musei e delle gallerie di pittura, della lettura e della curiosità per il mondo. La “tecnica” è importante solo se riesci a controllarla al fine di comunicare quello che vedi. La tua personale “tecnica” devi creartela e adattarla all’unico fine di rendere la tua visione evidente sulla pellicola. Ma solo il risultato conta, e la prova conclusiva è data dalla stampa fotografica; altrimenti non ci può essere un limite agli scatti che, secondo i fotografi, si avvicinerebbero a ciò che stavano per afferrar e che non è altro che la memoria nell’occhio della nostalgia.
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Una mano di velluto, un occhio di falco, questi i requisiti che tutti devono avere: non serve farsi avanti a gomitate.
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NYC, 1935

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