Fernando Pessoa, un nostalgico sognatore

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Siediti al sole.
Abdica e sii re di te stesso.
Tratto da “Una sola moltitudine“.
pessoa-1Riconosciuto oggi come uno dei più rilevanti poeti del Modernismo, Fernando Pessoa trascorre quasi tutta la vita in modeste condizioni, rinchiuso in una stanza ammobiliata presa in affitto a Lisbona e lasciando questa terra in solitudine, a soli quarantasette anni, senza clamore alcuno, silenziosamente così come aveva vissuto, e non ancora noto alla critica letteraria e al grande pubblico. Solamente dopo la sua morte vengono alla luce i suoi numerosi scritti, ben 27.543, rinvenuti dentro un baule. Le sue sono liriche straordinariamente intense la cui densità di linguaggio lo rendono un autore singolare che, secondo il critico letterario Harold Bloom, insieme a Pablo Neruda, è da ritenersi uno dei poeti più rappresentativi del Novecento.
Lo scrittore portoghese crea una lunga serie di “eteronimi“, da non confondersi con gli pseudonimi, di un unico scrittore; dietro ogni nome fittizio esiste una personalità poetica indipendente con peculiarità ideologiche e stilistiche che hanno una vita propria e si esprimono attraverso la poesia. Ancora bambino Pessoa crea il primo eteronomo di cui ne parlerà in futuro con il poeta e romanziere Adolfo Casais Monteiro in una lettera:  «[…] Ricordo, così, quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere a me stesso, e la cui figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio affetto che confina con la nostalgia».
Pessoa inventa dunque delle identità, spesso in contrasto tra loro, cui conferisce una biografia, una personalità ed anche sembianze fisiche, riuscendo così a donar loro un’esistenza autentica differente da quelle del loro creatore.

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I principali eteronimi, ovvero coloro che donano la maggiore produzione poetica sono: Àlvaro de Campos, un ingegnere navale bisessuale che ha studiato a Glasgow, viaggiato in Oriente e vissuto a Londra, città in cui desta scandalo. La sua è una poesia espressa in versi liberi che denota l’influenza di Walter Whitman. Tra gli altri eteronimi di una lunga serie ricordiamo l’elegante poeta neoclassico epicureista Ricardo Reis, l’unico personaggio cui non viene assegnata la data della morte, un insolito dettaglio che spingerà José Saramago a scrivere un celebre libro intitolato “L’anno della morte di Ricardo Reis” Alberto Caeiro, poeta intimamente legato alla natura e avverso al pensiero filosofico le cui liriche si caratterizzano per il linguaggio semplice e familiare e il verso libero privo di preoccupazioni formali. Quel semplice “pastore di pecore” ha solo lo scopo di descrivere oggettivamente e naturalmente la realtà.

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Accanto a queste tre fondamentali figure bisogna aggiungere il Pessoa “ortonimo” ed un altro eteronimo di notevole importanza, Bernardo Soares, autore del “Libro dell’inquietudine. Il Pessoa ortonimo è un poeta che usa il nome del suo creatore e compone poesie per lo più rimate avvalendosi di una metrica breve. L’ortonimo tuttavia non dev’essere identificato con il vero Pessoa anche perché la sua opera, dedita all’esoterismo, non può di certo racchiudere l’universo interiore del poeta. Per quanto invece concerne Soares non pochi sono gli studiosi a ritenerlo un semi-eteronimo non solo per le significative somiglianze con Pessoa, ma anche per la mancanza di una personalità delineata in modo dettagliato come accaduto con gli altri eteronimi.
I numerosi eteronimi creati da Pessoa sono talvolta in contrasto tra loro, ma quella contrapposizione di idee dev’essere letta come “drama em gente” (dramma fatto persona) in cui si manifesta non solo l’universo interiore dell’autore ma è anche da intendersi come espressione della complessità enigmatica racchiusa dentro ogni essere umano.
Appassionato di astrologia e di occultismo, Pessoa deciderà di dedicare la propria esistenza interamente alla letteratura, vista come rappresentazione teatrale delle maschere indossate dal borghese moderno la cui coscienza viene annientata dalla crisi tra i due secoli.

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Fernando Pessoa, una delle più complesse personalità della letteratura del XX secolo, è dotato di una densità psicologica senza pari, un talento ed una cultura incommensurabili che lo rendono in grado di dar vita a molti personaggi distinti tra loro sia in termini di esperienza di vita, sia per modalità stilistiche. Lo fa lamentando l’ insoddisfazione dell’animo umano, la sua precarietà, i suoi limiti, il dolore derivante dal pensiero, che l’uomo comune cerca di anestetizzare con ambizioni smodate e piaceri effimeri e dissipando la vita nella noia. E se i rimedi per questo male possono riscontrarsi nel sogno, nei viaggi, nel rifugiarsi nel mondo dell’infanzia, nel credere in un mondo ideale o affrontando la vita con lo stoicismo di Ricardo Reis, questi tentativi sono irrimediabilmente destinati a fallire perché il male è la stessa natura umana e il tempo la sua condizione fatale. La poesia di Pessoa è disperata, piena di entusiasmi febbrili, di nausea, di noia e di relativa insoddisfazione. Lo stesso poeta “è un fingitore/Finge così completamente/Che arriva a fingere che è dolore/ Il dolore che davvero sente.

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La poesia dunque non è nel dolore sperimentato o percepito, ma nella sua pretesa, nonostante sia “il dolore che davvero sente“. Non c’è arte senza immaginazione e l’immaginazione dev’essere sentita al fine di esprimersi artisticamente. Questa realizzazione opera nella memoria del dolore iniziale, facendo apparire il dolore immaginato più autentico del dolore vero e proprio. Dunque vi sono quattro fasi nel dolore poetico: il dolore reale da cui sorge la poesia, il dolore che il poeta immagina, il dolore autentico del lettore che s’immedesima nella poesia e il dolore cosiddetto “intellettualizzato” che trae vita dall’interpretazione del lettore.

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Introverso e meditativo, Pessoa segue formalmente il modello della poesia tradizionale portoghese che si distingue per la morbidezza e la musicalità ritmica delle composizioni, ma poiché l’autore ha dato vita a diversi eteronimi, si riscontrano nelle sua produzione anche stili diversi creati dalla sua incredibile genialità che lo rende in grado di delineare gli abissi dell’anima con la leggerezza del battito d’ali di una farfalla.
pessoa-11Nato il 13 giugno del 1888 a Lisbona da Joaquim de Seabra Pessoa, funzionario del Ministero della Giustizia e critico musicale, e da Maria Magdalena Pinheiro Nogueira, originaria delle Azzorre, Fernando perde il padre quando ha ancora cinque anni e poco dopo anche il suo unico fratellino, che non raggiunge nemmeno un anno di età.
L
a madre si risposa nel 1895 con il console portoghese per il Sudafrica João Miguel Rosae e Fernando è costretto a trasferirsi a Durban nel 1896. Dopo aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza tra Lisbona e il Sudafrica, a ventidue anni Pessoa ritorna definitivamente in Portogallo dove trascorrerà il resto della sua breve vita.
A causa degli impegni della madre con i figli del secondo matrimonio, il ragazzino si isola, donandosi così ampi spazi alla riflessione e tuffandosi nel mondo dell’immaginazione. Il profondo contatto con la lingua inglese e la sua passione per la lettura, che spazia da Charles Baudelaire a Edgar Allan Poe, gioca un ruolo fondamentale non solo nella sua vita, ma anche nel suo lavoro.
Già a tredici anni comincia a comporre poesie in lingua inglese e trova impiego a Lisbona come corrispondente estero presso una piccola ditta di import-export. Casa, ufficio, qualche contatto con importanti esponenti della letteratura portoghese, la pubblicazione di una parte insignificante della sua opera (In inglese: “Sonetti“, 1913, “Epitalamio“, 1913 e “Antinoo“, 1918. In portoghese: “Messaggio, 1934) e una scelta di solitudine per potersi interamente dedicare alla letteratura. Questa la vita di questo grande pensatore.

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Per Pessoa la letteratura rappresenta la vita vera. Il poeta, infatti, sin da bambino mostra la necessità di isolarsi e, con il passare del tempo, si distacca dalla vita e dalla realtà per nutrirsi di letteratura e di sogni. La difficoltà di conoscere veramente se stesso lo spinge verso una ricerca senza sosta che si attuerà in particolar modo grazie alla scrittura. «È meglio scrivere piuttosto che osare vivere», scrive ne “Il libro dell’inquietudine” e il suo connazionale José Saramago così commenta l’opera di colui che considera uno dei migliori poeti mai esistiti: «Fernando Pessoa non riuscì mai a essere davvero sicuro di chi fosse, ma grazie al suo dubbio possiamo riuscire a sapere un po’ di più chi siamo noi».
Tranquillità, isolamento e un unico amore, naturalmente dopo quello per la letteratura: Ophélia Queiròz, la bella e giovane segretaria con cui Pessoa intrattiene una relazione quasi clandestina a causa della differenza di età che lo divide dalla donna. Ophélia ha diciannove anni e Fernando trentuno.

Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz.

Fernando Pessoa e Ophélia Queiròz

La relazione inizia il primo maggio del 1920 e s’interrompe improvvisamente quando Fernando si trova dinnanzi ad una lettera che reca la firma provocatoria di Ophélia Pessoa. Seguirà un silenzio del poeta, incalzato dalla giovane donna:
«Fernando, sono già quattro giorni che non si fa vivo e neppure si degna di scrivermi. Sempre lo stesso modo di comportarsi. […] Dato che Fernando non ha motivo di chiudere, si comporta così. Bene, in questo modo non sono disposta a continuare. Non sono il suo ideale, lo comprendo chiaramente, ciò di cui unicamente mi lamento è che il Signore lo abbia capito solo quasi dopo un anno».

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Il lungo silenzio del poeta sarà interrotto da una risposta che ben palesa le sue difficoltà nel relazionarsi con la vita reale: «Ophelinha, la ringrazio per la lettera. Essa mi ha portato dolore e sollievo allo stesso tempo. Dolore perché queste cose addolorano sempre; sollievo perché, in verità, l’unica soluzione è questa: non prolungare oltre una situazione che ormai non trova più una giustificazione nell’amore, né da una parte né dall’altra».
I due s’incontreranno casualmente negli anni successivi e nove anni dopo sembra riaccendersi la scintilla. Ma non si tramuterà mai in qualcosa di stabile. Pessoa ha forse idealizzato l’amore, lo ha confuso con la passione oppure teme che possa svanire così come accade con la stessa vita. O più semplicemente è afflitto da una lacerante timidezza.

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Basta rileggere la lettera scritta nove anni prima a colei che definirà sempre “Anima bella“, tra le lacrime, quando chiederà notizie dell’anticonformista Ophelia: «Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancor più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perché ha contratto l’abitudine di sentire se stessa che ama. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perché non possono credere che l’amore sia duraturo, né quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perché non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le altre cose che sono parti della vita?»

Pessoa è un sognatore, un disadattato che si trincera dietro nomi e biografie fittizie. Vive in un mondo parallelo, sognante, non visibile agli altri. Si nasconde quasi del tutto e, dopo aver fondato la rivista d’avanguardia “Orpheu“, che raccoglie le sperimentazioni futuriste, pauliste e cubiste, pochissime saranno le sue apparizioni in pubblico. La rivista, di brevissima durata, metterà in luce la prima invenzione teorica del nostro poeta, il Paulismo, ovvero quel modernismo portoghese che esprime una sorta di palude metafisica definita da Antonio Tabucchi, traduttore e grande studioso della poetica di Pessoa, dalle «tinte smaltate e decadenti che rimandano a Gaudí e Klimt».

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A causa di un presunto abuso di alcool, questo immenso poeta esistenzialista da considerarsi una delle figure più prolifiche e controverse della letteratura del secolo scorso, si spegnerà a causa di una crisi epatica il 30 novembre del 1935. Pochissimi come lui sono riusciti a descrivere la condizione umana moderna con simile profondità e saudade portoghese, che osserva l’universo del nulla con disadattamento ma è anche in grado di penetrare la vita stessa nella sua più intima essenza e nella sua pochezza. Un poeta che s’insinua negli anfratti più reconditi della vita e preferisce non vivere.
Tra le sue numerose opere, pubblicate dopo la sua morte, bisogna menzionare “Il libro dell’inquietudine” di Bernardo Soares, “Il banchiere anarchico“, Le Poesie di Alberto Caeiro” e “Poesie Esoteriche“.

Tuttavia il cammino di un uomo che per tutta la sua esistenza ha narrato la sua anima alla ricerca di attimi di serenità è la vera e grande opera che l’inquieto Pessoa ci abbia donato. In quel “baule pieno di gente“, così come lo definisce Tabucchi e che darà corpo ai quindici volumi delle sue “Opere complete in versi e prosa“, sono racchiuse le nostre ansie, la tragedia di vivere dentro una realtà il cui adattamento non è facile per quegli animi molto sensibili che non vorrebbero vedere certe bruttezze inspiegabili della vita. E la serenità, quello stato d’animo cui tutti aneliamo, si può trovare in qualsiasi e in nessun posto perché è riposta dentro di noi ed inutili appaiono quei tentativi di cercare fuori dal nostro essere qualcosa che possiamo incontrare solo leggendo dentro di noi in profondità.
Di seguito una raccolta di quelle che considero le più belle poesie di Pessoa.

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Se io

Se io, ancor che nessuno,
Potessi avere sul volto
Quel lampo fugace
Che quegli alberi hanno,

Avrei quella gioia

Delle cose al di fuori,
Perché la gioia è dell’attimo;
Dispare col sole che gela.

Qualunque cosa m’avrebbe meglio
Giovato della vita che vivo –
Vivere questa vita di estraneo
Che da lui, dal sole, mi era venuta!
[Viaggiare! Perdere paesi!
Essere altro costantemente,
non avere radici, per l’anima,
da vivere soltanto di vedere!
Neanche a me appartenere!
Andare avanti, andare dietro
l’assenza di avere un fine,
e l’ansia di conseguirlo!
Viaggiare così è viaggio.
Ma lo faccio e non ho di mio
più del sogno del passaggio.
Il resto è solo terra e cielo.]

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Nulla

Gli angeli vennero a cercarla
La trovarono al mio fianco,
lì dove le sue ali l’avevano guidata.
Gli angeli vennero per portarla via.
Aveva lasciato la loro casa,
il loro giorno più chiaro
ed era venuta ad abitare presso di me.
Mi amava perché l’amore
ama solo le cose imperfette.
Gli angeli vennero dall’alto
e la portarono via da me.
Se la portarono via per sempre
tra le ali luminose.
È vero che era la loro sorella
e così vicina a Dio come loro.
Ma mi amava perché
il mio cuore non aveva una sorella.
Se la portarono via,
ed è tutto quel che accadde.

(da “Quattro lamenti”)

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Tabaccheria

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.

Finestre della mia stanza,
della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
con il mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
con il Destino che guida la carretta di tutto sulla via del nulla.

Oggi sono sconfitto, come se conoscessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
da dentro la mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’avvio.

Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dall’altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente.
Dall’insegnamento che mi hanno impartito,
sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa.
Sono andato in campagna pieno di grandi propositi.
Ma là ho incontrato solo erba e alberi,
e quando c’era, la gente era uguale all’altra.
Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona. A che devo pensare?
Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
E in tanti pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
e la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno,
non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.[…] (Continua)

No, neppure in me…
in quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno, a quest’ora, geni-per-se-stessi, sognando?
Quante aspirazioni alte e nobili e lucide –
sì, veramente alte e nobili e lucide -,
e chissà se realizzabili,
mai vedranno la luce del sole reale né troveranno orecchi di gente?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
E non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.
Ho sognato più di quanto Napoleone abbia fatto.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho fatto in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sempre lo sarò, quello della mansarda,
anche se non ci abita;
Sarò sempre quello che non è nato per questo;
Sarò sempre solo quello che aveva qualità
Sarò sempre quello che attese che gli aprissero la porta accanto una parete senza porta,
e cantò il Canto dell’Infinito in un pollaio,
e ascoltò la voce di Dio in un pozzo tappato.
Credere in me? No, né in niente.
Sparga la Natura sulla mia testa ardente
il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli,
e il resto che venga se verrà, o se dovrà venire, o non venga.

Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso e` sconosciuto
siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
più il Sistema Solare e La Via Lattea e l’Indefinito. […] (Continua)

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(Mangia cioccolata, bambina;
mangia cioccolata!
Guarda che non c’è altra metafisica al mondo se non la cioccolata.
Guarda che le religioni tutte non insegnano più della confetteria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolata con la stessa verità con cui la mangi tu!
Ma io penso e, quando tolgo la carta d’argento, che è carta stagnola,
butto tutto per terra, come ho sempre buttato la vita.)

Ma almeno resta dell’amarezza di ciò che mai sarò
la calligrafia rapida di questi versi,
portico teso verso L’impossibile.
Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo senza lacrime,
nobile, almeno, nel gesto ampio con cui getto
i panni sporchi che sono, senza lista, sul decorso delle cose,
e resto in casa senza camicia.

(Tu, che consoli, che non esisti, e per questo consoli,
O Dea greca, concepita come statua che fosse viva,
O Patrizia Romana, impossibilmente nobile e nefasta,
O principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
O marchesa del diciottesimo secolo, scollata e distante,
O cocotte celebre del tempo dei nostri padri,
O non so cosa moderno – non saprei bene cosa – ,
tutto ciò, qualunque cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invocano spiriti invoco
me stesso e non trovo niente.
Mi accosto alla finestra e vedo la strada con nitidezza assoluta.
Vedo i negozi, i marciapiedi, le macchine che passano,
vedo gli enti vivi vestiti che si incrociano,
vedo i cani che anch’essi essistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio,
e tutto questo è estraneo, come tutto.) […] (Continua)

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Ho vissuto, ho studiato, ho amato, e perfino creduto,
e oggi non c’è mendicante che io non invidi solo perché non sono io.
Guardo di ognuno i cenci e le piaghe e la menzogna,
e penso: forse non hai mai vissuto, né studiato, né amato, né creduto
(Perché è possibile fare realtà di tutto questo senza fare niente di questo),
forse sei solo esistito come lucertola a cui tagliano la coda
e che è coda al di qua della lucertola agitatamente.

Ho fatto di me quel che non ho saputo,
e quel che potevo fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho vestito era sbagliato.
Mi hanno subito riconosciuto per chi non era e non l’ho smentito, e mi sono perduto.

Quando ho voluto togliere la maschera,
era attaccata al viso.
Quando l’ho tolta e mi son visto allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, e non sapevo più vestire il domino che non mi ero tolto.
Ho gettato via la maschera e ho dormito nello spogliatoio
come un cane tollerato dalla direzione
perché inoffensivo
e vado a scrivere questa storia per provare che sono sublime.

Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari ti incontrasse come cosa che io abbia fatto,
e non restassi sempre di fronte alla Tabaccheria di fronte,
calpestando la coscienza di stare esistendo,
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno zerbino rubato dagli zingari e non valeva niente.

Ma il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla porta e lì è rimasto.
Lo guardo con l’incomodo della testa non ben girata
e con l’incomodo dell’anima che non bene intende.
Lui morirà e io morirò,
lui lascerà l’insegna, io lascerò versi,
A un certo momento morirà anche l’insegna e anche i versi.
Dopo un certo tempo morirà la via dove era l’insegna,
e la lingua in cui furono scritti i versi.
Morirà poi il pianeta ruotante in cui tutto questo è accaduto.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa simili a gente
continuerà a fare cose come versi e a vivere sotto cose come insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa tanto inutile come l’altra,
sempre l’impossibile, stupido quanto il reale,
sempre il mistero del fondo certo quanto il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre un’altra cosa o né una cosa né l’altra.

Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile cade d’improvviso su di me.
Mi sollevo un po’ energico, convinto, umano,
e mi propongo di scrivere questi versi in cui dire il contrario. […] (Continua)

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Accendo una sigaretta pensando di scriverli
e assaporo nella sigaretta la liberazione di tutti i pensieri.
Seguo il fumo come una rotta autonoma,
e godo, in un momento sensitivo e competente,
la liberazione da tutte le speculazioni
e la coscienza che la metafisica è conseguenza dell’essere indisposti.

Poi mi abbandono indietro sulla sedia
e continuo a fumare.
Finché il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.

(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
forse sarei felice.)
Visto questo, mi alzo della sedia. Vado alla finestra.

L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (mettendosi il resto in tasca?)

Ah, lo conosco: è l’Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla porta.)
Come per un istinto divino l’Esteves si è girato e mi ha visto.
Mi ha accennato un saluto, gli ho gridato Ciao Esteves!, e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il Padrone della Tabaccheria ha sorriso.

Ho pena delle stelle

Ho pena delle stelle
che brillano da tanto tempo,
da tanto tempo…
Ho pena delle stelle.

Non ci sarà una stanchezza
delle cose,
di tutte le cose,
come delle gambe o di un braccio?

Una stanchezza di esistere,
di essere,
solo di essere,
l’essere triste lume o un sorriso…

Non ci sarà dunque,
per le cose che sono,
non la morte, bensì
un’altra specie di fine,
o una grande ragione:
qualcosa così, come un perdono?

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Diluente

La vicina del numero quattordici rideva oggi sulla porta
da dove un mese fa è uscito il funerale del figlio piccolo.
Rideva in modo naturale con l’anima nel volto.
D’accordo: è la vita.
Il dolore non dura perchè il dolore non dura.
D’accordo.
Ripeto: d’accordo.
Ma il mio cuore non è d’accordo.
Il mio cuore romantico fa delle sciarade con l’egoismo della vita.
Ecco la lezione, o anima di gente!
Se la madre dimentica il figlio che uscì da lei ed è morto,
chi si prenderà la briga di ricordarsi di me?

Sono solo al mondo, come un mattone rotto…
Posso morire come la rugiada si asciuga…
Per un’arte naturale della natura solare…
Posso morire per volontà dell’oblio,
posso morire come nessuno…
Ma questo duole,
questo è indecente per chi ha un cuore…
Questo…
Sì, questo mi rimane nella strozza come un sandwich alle lacrime…
Gloria? Amore? L’anelito di un’anima umana?
Apoteosi alla rovescia…
Datemi acqua minerale, che voglio dimenticare la Vita!…

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Porto dentro il mio cuore

Porto dentro il mio cuore,
come un cofanetto pieno che non si può chiudere,
tutti i luoghi dove sono stato,
tutti i porti a cui sono arrivato,
tutti i paesaggi che ho visto da finestre o da oblò,
o dai ponti di poppa delle navi, sognando,
e tutto questo, che è tanto, è poco per quello che voglio.

Ho viaggiato per più terre di quelle che ho toccato…
Ho visto più paesaggi di quelli su cui ho posato gli occhi…
Ho fatto esperienza di più sensazioni
di tutte le sensazioni che ho sentito,
perché, per quanto sentissi, sempre qualcosa mi mancava,
e la vita sempre mi afflisse, sempre fu poco, e io infelice.

Non so se la vita è poco o è molto per me.
Non so se sento troppo o poco, non so
Se mi manca lo scrupolo spirituale, il punto di
Appoggio dell’intelligenza,
la consanguineità con il mistero delle cose, scossa
ai contatti, sangue sotto i colpi, fremito ai rumori,
o se un altro significato più comodo e felice c’è per questo.
Sia come si vuole, era meglio non essere nato,
perché , per quanto interessante in ogni momento,
la vita finisce per dolere, nauseare,
tagliare, radere, stridere,
a dar voglia di urlare, saltare, restare per terra, uscire
fuori da tutte le case, da tutte le logiche
e da tutte le pensiline,
e andare a essere selvaggi verso la morte fra alberi e oblii,
fra cadute, e pericoli e assenza del domani,
e tutto ciò dovrebbe essere un’altra cosa
più vicina a ciò che penso,
a ciò che penso o sento, che non so nemmeno
cosa sia, oh vita.

Almada Negreiros, "Ritratto di Fernando Pessoa", 1954.

Almada Negreiros, “Ritratto di Fernando Pessoa”, 1954.

Chi sogna di più

Chi sogna di più, mi dirai —
Colui che vede il mondo convenuto
O chi si perse in sogni?

Che cosa è vero? Cosa sarà di più—
La bugia che c’è nella realtà
O la bugia che si trova nei sogni?

Chi è più distante dalla verità —
Chi vede la verità in ombra
O chi vede il sogno illuminato?

La persona che è un buon commensale, o questa?
Quella che si sente un estraneo nella festa?

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Fiore che non dura

Fiore che non dura oltre l’ombra di un attimo
la tua freschezza
persiste nel mio pensiero.

Non ti ho perduto
in ciò che sono,
se pure, o fiore, non ti ho visto mai
dove io non sono che la terra e il cielo.

Poco importa da dove la brezza

Poco importa da dove la brezza
trae l’aroma che in essa viene.
Il cuore non ha bisogno
di sapere cos’è il bene.

A me basti a quest’ora
la melodia che culla.
Che importa se, lusingando,
le forze dell’anima spegne?

Chi sono, perché il mondo si perda
dietro quel che penso sognando?
Se mi avvolge la melodia
solo il suo avvolgermi io vivo…

Lisbona rivisitata

Nulla mi lega a nulla.
Voglio cinquanta cose nel medesimo tempo.
Anelo con un’angoscia di fame di carne
quel che non che sia – definitamente per l’indefinito…
Dormo irrequieto, e vivo in un sognare irrequieto
di chi dorme irrequieto, mezzo sognando.

Mi chiusero tutte le porte astratte e necessarie.
Abbassarono cortine su tutte le ipotesi che avrei
potuto vedere nella via.
Non c‘è nella traversa trovata numero di porta che
m’hanno dato.
Mi sono svegliato alla stessa vita a cui m’ero
addormentato.
Perfino i miei eserciti sognati hanno patito sconfitta.
Perfino i miei sogni si sono sentiti falsi all’essere sognati.
Perfino la vita soltanto desiderata mi nausea – perfino questa vita…

Comprendo a intervalli sconnessi;
scrivo per lapsus di stanchezza;
e un tedio che è perfino del tedio mi scaraventa sulla spiaggia.

Non so che destino o futuro compete alla mia
angoscia senza timone;
non so che isole del Sud impossibile mi aspettano
naufrago;

o che palmeti di letteratura mi daranno almeno un verso.

No, non so questo, né altra cosa, né cosa alcuna…
E, nel fondo del mio spirito, ove sogno quel che ho sognato,
nei campi ultimi dell’anima, ove ricordo senza motivo
(e il passato è una nebbia naturale di lacrime false),
nelle strade e nei sentieri di foreste lontane
ove ho immaginato il mio essere,
fuggono smantellati, ultimi resti
dell’illusione finale,
i miei eserciti sognati, sconfitti senza essere esistiti,
le mie coorti da esistere, sfracellate in Dio.

Un’altra volta ti rivedo,
città della mia infanzia paurosamente perduta…
città triste e lieta, un’altra volta sogno qui…
Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, e qui è tornato,
e qui è tornato a tornare, e a ritornare.
E qui di nuovo sono tornato a tornare?
O siamo tutti gli Io che sono stato qui o sono stati,
una serie di chicchi-enti legati da un filo-memoria,
una serie di sogni di me, di qualcuno fuori di me?

Un’altra volta ti rivedo,
col cuore più lontano, l’anima meno mia.

Un’altra volta ti rivedo – Lisbona e Tago e tutto – passeggero inutile di te e di me,

straniero qui come in ogni parte,
casuale nella vita come nell’anima,
fantasma errante in sale di ricordi,
al rumore dei topi e delle tavole che scricchiolano
nel castello maledetto di dover vivere…

Un’altra volta ti rivedo,
ombra che passa attraverso ombre, e brilla
un momento a una funebre luce sconosciuta,
e penetra nella notte come una scia di nave si perde
nell’acqua che cessa di udirsi…

Un’altra volta ti rivedo,
ma, ahi, me non rivedo!
S‘è rotto lo specchio magico in cui mi rivedevo identico,
e in ogni frammento fatidico vedo solo un pezzo di me – un pezzo di te e di me!…

pessoa-27
Le isole fortunate

Quale voce viene sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
E’ la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
proprio per esserci messi ad ascoltare.

E solo se, mezzo addormentati,
udiamo senza sapere che udiamo,
essa ci parla della speranza
verso la quale, come un bambino
che dorme, dormendo sorridiamo.

Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno luogo,
dove il Re vive aspettando.
Ma, se vi andiamo destando,
tace la voce, e solo c’è il mare.

pessoa-28

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