I quadri di De Chirico suscitano smarrimento e profonda inquietudine: scene enigmatiche che si ripetono ossessivamente vengono espresse attraverso un’insolita prospettiva, il colore è applicato con attenzione, i volumi ben definiti e gli accostamenti incomprensibili ed inverosimili.
L’artista, profondamente influenzato dall’arte classica greca, vuole spronare i pittori contemporanei a riprendere in mano la loro professione criticando ferocemente tutti quei movimenti artistici rivoluzionari, dall’Impressionismo in poi, che riduce, senza usare mezzi termini, a mere “baldorie coloristiche“.
Bisogna tornare a calcolare lo spazio geometricamente e a definire perfettamente i volumi delle scene da rappresentare sulla tela.
Le sue composizioni si riconoscono immediatamente per l’accostamento di figure e oggetti indecifrabili che travolgono l’osservatore e lo pongono dinnanzi ad immagini inconsuete che rimandano ad una realtà inafferrabile e angosciante.
Una realtà che pare trovare la sua collocazione “oltre la natura“, sconfinando volutamente nell’immaginario.
Secondo l’artista, infatti, l’arte deve essere intesa come uno strumento dell’uomo per conoscere veramente se stesso, per lasciare che pensieri e suggestioni soggettive fluiscano liberamente rimandando allo stato d’animo del momento.
I suoi quadri rappresentano per lo più piazze soleggiate e vuote in cui ogni figura e oggetto ritratti appaiono statici e muti. La prima sensazione avvertita dall’osservatore è quella di avere davanti a sé un dipinto freddo, quei disegni sicuri e decisi non trasmettono alcun calore. De Chirico non vuole certamente avvolgerci in una pittura confortante e calda. Nemmeno la luce solare riscalda quei quadri in cui emergono statue, manichini, busti di gesso, monumenti famosi o portici rinascimentali che l’artista ha modificato.
L’atmosfera è immobile. Una sembianza di vita sembra appena scorgersi in lontananza. Può essere un’ombra, un treno o una ciminiera. Le piazze dell’artista sono luoghi vuoti dove la gente non s’incontra più e non comunica con l’altro.
L’artista sembra un osservatore spietato di un mondo che ai suoi occhi appare un museo di bizzarrie e vuole scoprire ciò che va oltre la materia visibile. Vuole dipingere ciò che non è visibile ai nostri occhi anticipando così il Surrealismo, il Dadaismo ed il Realismo Magico.
Nato il 10 luglio del 1888 a Volo, in Grecia, da genitori italiani benestanti, Giorgio De Chirico inizia a studiare pittura presso il Politecnico di Atene per poi proseguire gli studi all’Accademia della Belle Arti di Firenze e successivamente a Monaco di Baviera. In una Germania in profondo fermento culturale il giovane entra in contatto con i maggiori intellettuali ed artisti del periodo.
Sedotto dalla filosofia di Friedrich Nietzsche e di Arthur Schopenhauer, subisce il fascino della pittura simbolista di Arnold Böcklin la cui influenza nella sua formazione artistica sarà notevole.
Trasferitosi a Parigi nel 1910, conosce gli artisti più rilevanti del periodo dai poeti Apollinaire e Valery al pittore Pablo Picasso, ma non mostra alcun interesse nei confronti del Cubismo che in quegli anni comincia ad avere un ruolo rilevante nell’orientamento pittorico.
Nei confronti delle avanguardie mostrerà un atteggiamento piuttosto polemico; quell’universo artistico simbolista e decadente conosciuto in Germania e che si esprime con immagini oniriche immerse in architetture classiche lo ha segnato profondamente e da quello studio prenderà nascita la sua singolare pittura.
In quegli anni comincerà a produrre le sue prime opere in cui già si riesce ad intravedere il suo stile volto a ritrarre piazze desolate, monumenti architettonici e figure umane indistinte.
“L’enigma dell’ora“, dipinto nel 1911, è il primo esempio del cammino artistico intrapreso dal pittore.
«L’opera d’arte metafisica è quanto all’aspetto serena: dà però l’impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità», dirà in seguito l’autore, ma devo dire che di fronte alla sua arte non provo alcun sentimento di quiete. Nei suoi dipinti ci si inoltra negli abissi tempestosi del nostro animo, la presenza di un elemento fortemente classico si accompagna ad un aspetto enigmatico, un interrogativo destinato a restare sospeso.
Le tiepide sembianze di vita che appaiono fungono da pretesto per nascondere qualcosa che sfugge a prima vista: un’arte che scaturisce da una cristallizzazione di un momento e che non prevede paesaggi o uomini.
Una pittura inedita e magica che comincia a dare notorietà a De Chirico, ma non abbastanza per potersi mantenere economicamente.
Dopo essersi arruolato volontario durante la Prima Guerra Mondiale, viene inviato a Ferrara dove si incontra con il pittore Carlo Carrà, famoso per la geometria chiara ed essenziale delle sue opere che riescono a far assumere ai suoi ritratti un aspetto lirico ed inconsueto. Quest’ultimo, insieme a De Chirico, elaborerà la teoria della pittura metafisica.
La pittura metafisica dev’essere letta come un’opposizione al dilagante Futurismo che guarda al mondo presente e futuro con una pittura dinamica ed in continua evoluzione. Nell’arte di De Chirico si riesce a vedere il silenzio. Un silenzio che affascina e turba per le immagini di assoluta immobilità che evocano suggestioni irreali e magiche.
Le scene sono nitide, i toni freddi con chiaroscuri molto evidenti e che vedono emergere, quasi come se si trattasse di un sortilegio, in mezzo a piazze, edifici classici e nature morte, minuscole ombre o immagini di esseri umani che sembrano trovarsi lì per caso. Figure solitarie in mezzo ad un insieme di elementi introdotti in modo irrazionale. Non vi è alcuna logica nei quadri di De Chirico, così come non vi è alcuna logica nella nostra stessa vita. Non vi è apparentemente, o forse volutamente, alcun legame tra gli oggetti rappresentati. L’osservatore si trova davanti a dei palcoscenici in cui vengono inseriti degli oggetti inattesi ed il cui sfondo che riesce a fare avvertire un’aria silenziosa e immobile. Ecco dunque una pittura che desidera andare oltre la realtà.
I suoi dipinti devono essere osservati a lungo e con molta attenzione.
Nel meraviglioso quadro “Mistero e malinconia di una strada“, del 1914, notiamo una strada immaginaria e soleggiata creata con lunghe pennellate di tinte vivaci che creano luci fisse ed irreali. L’atmosfera si carica di suggestioni misteriose e tristi e scaraventa noi osservatori in uno stato d’animo di malinconica attesa.
Una bambina gioca con un cerchio lungo una strada in salita, ma ciò che vede davanti a sé non emana niente di rassicurante; le ombre nere di un carrozzone vuoto e spalancato, un edificio la sovrasta alla sua destra e l’ombra di una strada sembrano arrestare il suo cammino. Il cielo è plumbeo, ma la strada è rischiarata da una luce molto accesa. Sotto i porticati il buio dà l’impressione che le mura siano luminose, ma della bambina viene raffigurata solo l’ombra. Il potente contrasto tra luci ed ombre, mirabilmente creato dall’artista, ci restituisce quelle immagini del nostro misterioso mondo onirico in cui talvolta resta impressa una visione che ci paralizza durante il momento del sonno. Non ci troviamo dinnanzi ad una scena di vita quotidiana ed ogni elemento del dipinto non ha alcuna minima relazione con gli altri, così come accade quando sogniamo. Ma non sembra trattarsi di un bel sogno.
Un’altra sua opera emblematica è “Il grande metafisico” (1917) in cui, in una piazza completamente deserta, fatta eccezione la figura di una sola persona che s’intravede in lontananza, il pittore pone in primo piano un manichino coperto quasi interamente da righe, squadre, elementi geometrici e da un mantello rosso. Non è facile cogliere il significato di una simile opera che può prestarsi a numerose interpretazioni.
Anche in questo dipinto emerge quell’universo atemporale presente in tutte le sue opere. La figura messa in evidenza non ha alcuna fattezza umana, nemmeno la testa del manichino presenta caratteristiche che rimandino all’uomo. Cosa potrebbe rappresentare quest’opera? Devo ammettere che tale dipinto, il cui impatto risulta inquietante, così come tutte le opere di questo straordinario artista, è quella di un uomo comune che consente al mondo di lasciarsi comporre senza attuare alcuna azione per edificare se stesso. Gli oggetti che lo circondano sono gelidi e rigidi, quelle forme geometriche non possono avvolgerlo, non lo riscaldano. E l’uomo diventa semplicemente un oggetto in mezzo a tanti oggetti.
Quanti esseri senza sguardo incontriamo nella vita di ogni giorno? E quante volte noi stessi in mezzo ad una folla rumorosa che schiaccia il nostro essere assumiamo senza accorgercene un volto anonimo che non si riesce a distinguere da quella moltitudine che urla senza comunicare con l’altro? Un rebus la nostra stessa esistenza, così come i quadri di De Chirico.
Torno indietro ed osservo di nuovo uno dei suoi autoritratti più famosi.
Così come in altri suoi autoritratti il suo sguardo è pensieroso e gli occhi vengono dipinti con un lieve accenno di pupille, come se volesse mostrare di rivolgere la sua osservazione verso di sé. La stessa osservazione la rivolge nei confronti del mondo che esamina usando uno sguardo interiore. Sotto il suo autoritratto si legge una scritta in latino: «Et quid amabo nisi quod aenigma est?» la cui traduzione è: «E cosa amerò se non ciò che è enigmatico?».
Già è forse sufficiente questa affermazione per comprendere un’opera che non può ridursi ad un’analisi univoca e completa perché scaraventa l’osservatore in un crescendo di dilemmi insolubili; e se pensiamo di aver compreso una parte del significato che l’opera ha voluto trasmetterci, si presenta, ad un’attenta osservazione, un altro dettaglio pronto a demolire quell’effimera certezza del momento in cui abbiamo cercato di dare un’interpretazione.
Le sue opere, colte e complesse, si distinguono nettamente dalla moda del periodo provocando una sensazione di smarrimento. La scena del quadro “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” appare in bilico in un tempo indefinito e pressoché statico. Le figure umane presenti potrebbero aiutarci a comprendere il significato intrinseco del quadro, ma non riescono a farci intravedere alcun sentiero che possa condurci ad una completa interpretazione, facendo sì che nel nostro animo permanga uno stato di oscurità enigmatica. Lo stesso titolo suggerisce che si tratta di un enigma.
Chi è la donna in abito rosso che sembra volersi aggrappare ad un uomo impassibile e volge il suo capo verso il basso coprendolo con la mano? L’impressione che ne deriva è quella dell’eterna incomunicabilità tra gli esseri umani.
Grazie ad alcuni appunti dell’artista si viene a conoscenza che la piazza in cui si ambienta la scena è quella di Santa Croce a Firenze e la statua dovrebbe rappresentare il monumento dedicato a Dante. Ma non sono certamente questi dettagli a far comprendere a noi osservatori il significato di questo dipinto. Ciò che sorprende è quella sensazione di eterna sospensione, quell’approccio metafisico al mondo reale in cui appaiono degli elementi simbolici che potrebbero rimandare a quel mondo classico tanto amato da De Chirico. Nello sfondo si vede un muro che rende impossibile la visione di ciò che si cela dietro ad esso. Tuttavia, le vele di una barca che sporgono sopra di esso ci riporta in mente la siepe della poesia “L’infinito” di Giacomo Leopardi. Ma le sensazioni interiori dell’autore possiamo solo interpretarle, ciò che riveste una fondamentale importanza è quella moltitudine di sensazioni che il dipinto suscita dentro ognuno di noi, a seconda dello stato d’animo in cui ci troviamo dinnanzi a questo capolavoro.
Un artista filosofo che guarda il mondo in modo diverso dagli altri e che nella torre sembra voler ancora citare Leopardi che nella sua opera “Lo Zibaldone” scrive: « […]Una torre veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito».
In un’ atmosfera immobile la torre assurge a simbolo del divenire in un continuo alternarsi di nascita e fine.
I surrealisti lo considereranno il loro precursore, ma De Chirico manterrà le distanze da quel movimento che riuscirà a dar spazio a quella parte irrazionale dell’uomo, ben presente nelle sue opere. La ragione di tale estraneità alla pittura surreale deriva dal rifiuto di De Chirico nei confronti di quella che lui considera un’esasperazione eccessiva della dimensione onirica.
Negli anni ’20 l’artista si sposta continuamente da Roma a Milano e Firenze e collabora con alcune riviste tra cui “La Ronda” su cui scrive un articolo molto interessante sul classicismo pittorico in cui evidenzia la sua profonda ammirazione per la pittura classica e la tecnica usata dai maestri rinascimentali.
La sua prima personale viene allestita a Milano, nel 1921, suscitando un enorme scandalo.
Tre anni dopo partecipa per la prima volta alla prestigiosa Biennale di Venezia e successivamente si reca a Parigi dove conosce e sposa l’attrice russa Raissa Gurievitch Krol, ritratta nel famoso quadro “La bagnante“, realizzato nel 1929.
Nello stesso anno decide di stabilirsi definitivamente a Roma. Il matrimonio con Raissa avrà vita breve e nel 1931 De Chirico sposa Isabella Pakszwer, che gli resterà accanto per tutta la vita.
La sua pittura in quegli anni si orienta verso un classicismo di interesse archeologico e l’introduzione di figure mitologiche sarà sempre interpretata in quella prospettiva metafisica che accompagnerà tutta la sua produzione ed a cui farà continuamente ritorno negli anni seguenti.
Ormai famoso in tutto il mondo, sarà continuamente impegnato in mostre che riscuoteranno un discreto successo di pubblico e di critica.
Si dedica anche alla scultura e ai ritratti e a Roma sarà presente per l’ultima volta ad una sua mostra intitolata “Esposizione di disegni“, nel 1978.
Muore a Roma il 20 novembre dello stesso anno dopo una lunga malattia.
Nonostante le continue inversioni di rotta nella sua lunga carriera artistica, il pittore, purtroppo poco apprezzato in Italia, sarà considerato un punto di riferimento irrinunciabile dell’arte metafisica in tutto il mondo, e proprio a quell’aspetto peculiare della sua pittura sono stati selezionati per la mostra che si sta tenendo a Ferrara, i dipinti che maggiormente racchiudono questa grande passione dell’artista, tra cui “Le muse inquietanti“, realizzata nel 1918 e considerata l’opera metafisica per antonomasia, nonché il suo capolavoro assoluto.
Dipinto contraddistinto da un potente impianto prospettico con un punto di fuga molto alto, rappresenta una grande piazza di Ferrara con al centro un palcoscenico che si erige su tavole in legno. Così come si nota in quasi tutte le sue opere metafisiche non sono presenti figure umane e le finestre degli edifici sono chiuse e non illuminate.
Accanto al palazzo estense si notano una torre di forma cilindrica e due ciminiere spente di una fabbrica.
Sulla destra appare in ombra una statua antica, mentre in primo piano risaltano due manichini, poggiati su piedistalli, le cui teste hanno una forma ovale. In questo primo piano si notano anche altre figure ed oggetti il cui significato appare oscuro, corpi geometrici disposti a terra e colorati come giochi di bambini e che forse simboleggiano una visione del mondo filtrata da uno sguardo innovatore ed infantile.
Una luce irreale rischiara la piazza e le figure ritratte sono ben delimitate dalle linee di contorno rimandando alla tradizione italiana rinascimentale che attribuisce un’enorme rilevanza al disegno.
I colori sono accesi e stesi in modo uniforme, ma nell’insieme l’atmosfera è particolarmente cupa. La relazione tra gli oggetti presenti, i manichini senza volto e quella piazza deserta immergono lo spettatore in uno scenario che non riesce a dare alcuna risposta. Ma, come già sottolineato prima, De Chirico ama quell’atmosfera di perenne attesa e non vuole dare alcuna risposta, suggerisce semplicemente una realtà differente da quella che siamo soliti vedere, una mera realtà metafisica in grado di suscitare in noi un’emozione del tutto personale, connessa ai nostri ricordi o alla nostra visione del reale o di quel mondo celato ai nostri occhi, ma onnipresente. Le muse vengono considerate nell’arte le ispiratrici di un’opera. Ma accanto a muse, il nostro pittore ha aggiunto l’aggettivo “inquietanti“. Non più dunque protettrici dell’artista, ma statiche e misteriose, custodi di un mistero inafferrabile come la stessa vita ed il nostro animo.
Di seguito alcune citazioni dell’autore accompagnate dalle immagini di altre sue opere.
L’arte deve creare sensazioni sconosciute in passato; spogliare l’arte dal comune e dall’accettato… sopprimere completamente l’uomo quale guida o come mezzo per esprimere dei simboli, delle sensazioni, dei pensieri, liberare la pittura una volta per tutte dall’antropomorfismo… vedere ogni cosa, anche l’uomo, nella sua qualità di cosa.
La potenza intellettuale di un uomo si misura dalla dose di umorismo che è capace di utilizzare.
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Un’opera d’arte per divenire immortale deve sempre superare i limiti dell’umano senza preoccuparsi né del buon senso né della logica.
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Dovete aver notato che da qualche tempo c’è qualcosa di cambiato nelle arti; non parliamo di neoclassicismo, di ritorno ecc.; vi sono degli uomini, dei quali probabilmente anche voi fate parte, che, arrivati a un limite della loro arte, si sono domandati: dove andiamo? Hanno sentito il bisogno di una base più solida; non hanno rinnegato nulla… Ma un problema mi tormenta da circa tre anni: il problema del mestiere: è per questo che mi sono messo a copiare nei musei.
Per le emulsioni e il mio olio emplastico, che possano dare alla materia della mia pittura sempre maggiore trasparenza e densità, sempre maggior splendore e fluidità, io mi perdo in sogni bizzarri davanti allo spettacolo della mia pittura e mi sprofondo in riflessioni sulla scienza della pittura e sul grande mistero dell’arte.
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Pigliamo un esempio: io entro in una stanza, vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri; tutto ciò che mi colpisce non mi stupisce, poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo che per un momento e per cause inspiegabili ed indispensabili dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore o forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando quella scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che non la vedrei sott’un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose. Deduco, sì può concludere che ogni cosa abbia due aspetti: uno corrente, quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro lo spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica, così come certi corpi occultati da materia impenetrabile ai raggi solari non possono apparire che sotto la potenza di luci artificiali quali sarebbero raggi x.
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In questo secolo di faticoso lavoro compiuto attraverso tutto il medioevo; i sogni di mezzanotte e i magnifici incubi di Masaccio o di Paolo Uccello si risolvono nella chiarezza immobile e nella trasparenza adamantina di una pittura felice e tranquilla, ma che serba in sé un’inquietudine come nave giunta al porto sereno d’un paese solatìo e ridente dopo aver vagato per mari tenebrosi e traversato zone battute da venti contrari. Il Quattrocento ci offre questo spettacolo, il più bello che ci sia dato godere nella storia dell’arte nostra, d’una pittura chiara e solida in cui figure e cose appaiono come lavate e purificate e risplendenti d’una luce intensa. Fenomeno di bellezza metafisica che ha qualcosa di primaverile e di autunnale nel tempo stesso.
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Quando confronto la felicità di capire la qualità di una materia pittorica con quella di capire il lato poetico e metafisico sento che la prima è molto più profonda e completa.
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