Padre dell’esistenzialismo francese, Jean-Paul Sartre è ancora oggi considerato un personaggio scomodo nel suo paese a causa dell’empatia che lo scrittore mostrò verso i popoli colonizzati e la sua presa di posizione chiaramente critica nei confronti della tradizione colonialista francese.
Il suo campo d’indagine è principalmente volto verso il significato dell’esistenza umana, primo interrogativo che l’uomo si pone quando prende coscienza della sua presenza nel mondo e, non dovendosi più occupare della mera sopravvivenza, comincia a cercare nei meandri, spesso confusi, della filosofia le risposte.
Sartre guarda con coraggio, dritto negli occhi l’insensatezza dell’esistenza e la singolarità di ogni essere umano nella sua imprevedibile e inspiegabile irripetibilità.
Nato il 21 giugno del 1905 a Parigi da una famiglia borghese, non conoscerà mai il padre, che muore quando Jean-Paul è ancora in tenera età. Figlio unico, al centro delle attenzioni della madre e dei nonni, in particolare del nonno materno, riceve proprio da quest’ultimo la sua prima istruzione fino ai dieci anni di età. Anni felici, nonostante uno strabismo congenito e la perdita parziale della vista da un occhio. Coccolato e vezzeggiato, si sviluppa in lui una personalità narcisista che lo induce a trascorrere il tempo a divorare libri piuttosto che a giocare con i suoi coetanei.
Quando la madre si risposa e si trasferisce con il figlio a La Rochelle, nel 1917, Sartre trascorre anni difficili a causa della difficoltà di instaurare relazioni con i compagni di classe, spesso aggressivi e insensibili, che trovano nel ragazzo la vittima ideale per atti di bullismo, a causa del suo carattere schivo, i suoi problemi di vista e la sua altezza al di sotto della media. A tali sofferenze si aggiunge la nuova “famiglia” in cui è costretto a vivere e che il futuro scrittore non riesce ad accettare serenamente. Dopo un urgente ricovero a Parigi per problemi di salute, la madre decide di far continuare gli studi del figlio nella capitale. Nel 1929 Sartre si laurea in filosofia presso l’École Normale Supérieure. Diventa insegnante e conosce il grande amore della sua vita, la scrittrice femminista Simone de Beauvoir.
Una relazione forzatamente anticonvenzionale che prevede i tradimenti da parte di entrambi e considera il matrimonio un’istituzione obsoleta. Ma in questo patto, stabilito solo apparentemente con il consenso della donna, la scrittrice soffre silenziosamente per i ripetuti tradimenti del suo compagno e sprofonderà poi nella depressione e nell’abuso di alcool, anche se fino alla morte non confesserà mai le umiliazioni subite dal suo compagno di vita che la tradirà fino alla fine, legandosi poi ad una studentessa ebreo-algerina, Arlette Elkaïm, nominata esecutrice testamentaria di Sartre.
L’egocentrismo dello scrittore, attivista nella Resistenza francese, portavoce dei colonizzati, lo porta a non accorgersi dell’infelicità della donna che gli resterà sempre accanto per tutta la vita.
Sartre vive con intensità il periodo storico delle due guerre mondiali e il senso di smarrimento che ne deriverà e accompagnerà gli intellettuali europei per molto tempo.
Durante gli anni che precedono la seconda guerra mondiale pubblica le sue opere narrative più interessanti e che influenzeranno generazioni di lettori e intellettuali: il romanzo “La nausea“, (1938) e la raccolta di racconti intitolata “Il muro” (1939).
La filosofia di Sartre è dominato dal crollo di ogni certezza che trovava nella logica la sua dimostrazione. I grandi sistemi razionali, dominanti fino a poco tempo prima, precipitano miseramente nell’oblio.
L’uomo sartriano è alla continua ricerca di un’utopistica fusione tra l’essere e la libertà e nella sua narrativa ogni personaggio rincorre un posto nel mondo, che sia quello di comandare, di sprofondare nella follia, di inseguire il successo, uccidere o lasciarsi condannare a morte, ma in ogni momento si avverte l’enigmatica voragine dell’esistenza ripetutamente volta a ricordarci il nostro destino di esseri finiti e la mancanza di senso di questa corsa, la vanità di ogni sforzo. La realtà appare sempre insensata e soffocante al protagonista del romanzo “La Nausea“, Antoine Roquentin, rappresentazione perfetta di quell’umanità fragile e viva in ognuno di noi che precipita sotto il crudele fardello dell’esistenza, così racchiusa nelle parole del personaggio: «Vorrei tanto lasciarmi andare, dimenticarmi, dormire. Ma non posso, soffoco: l’esistenza mi penetra da tutte le parti, dagli occhi, dal naso, dalla bocca». Solo alla fine del romanzo, nel cupo pessimismo del protagonista sembra intravedersi una debole luce.
Una flebile luce, comunque, nulla di certo che possa essere in grado di dare delle risposte all’inquietudine umana. Nel semplice ascolto di una canzone, Antoine comprende che il compositore e la cantante del brano sono riusciti a rendersi eterni e forse il destino di ogni uomo alla morte può essere superato creando qualcosa in grado di renderlo immortale. Nell’ultima pagina si legge: « […] verrebbe pure un momento in cui il libro sarebbe scritto, sarebbe dietro di me, e credo che un po’ della sua luce cadrebbe sul mio passato. Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare la mia vita senza ripugnanza.» La decisione del singolo forse potrà salvare l’uomo da una vita priva di senso.
Forse.
Internato durante il nazismo, dopo il suo rilascio torna a Parigi e partecipa alla resistenza.
Alla fine della guerra si avvicina alle idee marxiste, rigettando il capitalismo e lo stalinismo.
Insieme a Merleau-Ponty fonda la rivista “Les Temps Modernes“.
Personaggio eclettico, riesce a dedicarsi contemporaneamente alla speculazione astratta e alla stesura di romanzi e opere teatrali. La sua filosofia si accompagna alla creazione artistica e, abbandonata la carriera di insegnante, decide di dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria, a quella che definisce «la folle impresa di scrivere per farsi perdonare della sua esistenza».
Scrive senza interruzione e tra le sue principali opere bisogna ricordare “L’esistenzialismo è un umanesimo“(1946) in cui evidenzia l’importanza fondamentale dell’impegno sociale, i drammi “Morti senza sepoltura” (1946), “Le mani sporche“ (1948); il romanzo “La morte nell’anima (1949); i saggi “Baudelaire” (1947) e “San Genet commediante e martire“(1952).
Nel 1964 rifiuta il premio Nobel per la letteratura attribuitogli perché, secondo il suo punto di vista, solo dopo la morte di uno scrittore si può essere in grado di comprenderne la grandezza dell’opera.
Dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, avvenuta nel 1968, Sartre abbandona definitivamente il Partito Comunista e si accosta a gruppi di estrema sinistra, sempre con la sua caratteristica principale di non sottostare ai diktat di qualsiasi orientamento politico, facendo sì che il suo atteggiamento susciti sdegno sia tra i comunisti che tra gli anticomunisti.
Nel saggio “Che cosa può la letteratura?“(1964) affronta con chiarezza ciò che pensa del ruolo dell’intellettuale nella società e critica l’intellettuale borghese che, comodo nella sua poltroncina, non partecipa attivamente ai movimenti di cambiamento mondiali.
Negli ultimi anni della sua vita, al culmine della sua fama, Sartre prende completamente le distanze dal comunismo per avvicinarsi all’anarchismo non violento, consapevole dell’utopia di un socialismo reale, sebbene sottolinei con fervore che «Se si leggono i miei libri, si capirà che non sono mai cambiato in profondità, e sono sempre rimasto un anarchico».
Esistenzialista ateo, Sartre sottolinea la solitudine dell’uomo, abbandonato a se stesso, ma “condannato ad essere libero” e quindi obbligato ad operare una scelta, dopo un cammino doloroso, attraverso quella nausea che sfata tutti i falsi valori del passato e di un presente dominato dal capitalismo e dal consumismo. Obbligato a scegliere, se rifuggisse da tale responsabilità, opterebbe per la “malafede”, una fuga continua dal suo essere, rifugiandosi in ruoli rassicuranti, ma fasulli. Non dare un senso alla propria libertà, rende l’uomo prigioniero di un carcere che egli stesso vuole erigere.
«L’uomo non è niente altro che quello che progetta di essere; egli non esiste che nella misura in cui si pone in atto; non è, dunque, niente altro che la somma dei suoi atti, niente altro che la sua vita. Da questo possiamo comprendere perché la nostra dottrina faccia orrore a un certo numero di persone. Perché, spesso, esse hanno un solo modo di sopportare la loro miseria, ed è di pensare: le circostanze sono state contro di me, io volevo molto di più di quello che sono stato».
Colto da una grave malattia alla vista, Jean-Paul Sartre, conclude la sua esistenza, sempre attiva e finalizzata a quella responsabilità antitetica alla malafede, il 15 aprile del 1980.
Icona della ribellione giovanile del dopoguerra, oggi si sta assistendo, soprattutto negli Stati Uniti e in Brasile, ad una rilettura della sua opera, le cui contraddizioni sono ancora oggetto di studio.
Di seguito una raccolta dei suoi più significativi pensieri.
Noi non abbiamo né dietro a noi, né dinanzi a noi, in un dominio luminoso dei valori, delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse.
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Che cosa c’è di più commovente per un cuore d’uomo che l’inizio di un mondo e la giovinezza dai tratti ambigui e l’inizio di un amore, quando tutto è ancora possibile, quando il sole è presente nell’aria e sui visi, come una fine polvere senza essersi ancora mostrato e fa presagire, nell’acre freschezza del mattino, le pesanti promesse del giorno.
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Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia.
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Alle tre del pomeriggio è sempre troppo presto o troppo tardi per qualsiasi cosa tu voglia fare.
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Sono invecchiati in un altro modo. Vivono in mezzo alle cose ereditate, ai regali, ed ogni mobile per loro è un ricordo. Pendole, medaglie, ritratti, conchiglie, fermacarte, paraventi, scialli. Hanno armadi pieni di bottiglie, di stoffe, di vecchi vestiti, di giornali, hanno conservato tutto. Il passato è un lusso da proprietari.
Ed io dove potrei conservare il mio? Non ci si può mettere il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo. lo non possiedo che il mio corpo; un uomo completamente solo, col suo corpo soltanto, non può fermare i ricordi, gli passano attraverso. Non dovrei lagnarmi: il mio solo desiderio è stato d’esser libero.
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Non facciamo quello che vogliamo e tuttavia siamo responsabili di quel che siamo.
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La società rispettabile credeva in Dio per evitare di doverne parlare.
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Non credo che la felicità esista; credo che esista soltanto la gioia.
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Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire.
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Ma il suo giudizio mi trafiggeva come una spada e metteva in discussione perfino il mio diritto d’esistere. Ed era vero, me n’ero sempre reso conto: non avevo il diritto di esistere. Ero apparso per caso, esistevo come una pietra, una pianta, un microbo. La mia vita andava a capriccio, in tutte le direzioni. A volte mi dava avvertimenti vaghi, a volte non sentivo che un ronzio senza conseguenze.
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Il mondo è iniquità: se l’accetti sei complice, se lo cambi sei carnefice.
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Questo momento è stato straordinario. Ero lì, immobile e gelato, immerso in un’estasi orribile. Ma nel seno stesso di quest’estasi era nato qualcosa di nuovo: comprendevo la Nausea, ora, la possedevo. A dire il vero, non mi formulavo la mia scoperta. Ma credo che ora mi sarebbe facile metterla in parole. L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare, come l’altra sera al «Ritrovo dei ferrovieri»: ecco la Nausea; ecco quello che i Porcaccioni — quelli di Poggio Verde e gli altri — tentano di nascondersi con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi.
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Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche.
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Che imbecilli. Mi ripugna il pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza. Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano, hanno l’estrema stupidità di fare figli. E frattanto la grande natura incolta s’è insinuata nella loro città, s’è infiltrata dappertutto, nelle loro case, nei loro uffici, in loro stessi. Non si muove, si mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in pieno, la respirano e non la vedono, credono che sia fuori, a venti miglia dalla città. Io la vedo, questa natura, la vedo… So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch’essa non ha leggi: quella che scambiano per la sua costanza… Non ha che abitudini, e le può cambiare domani.
Dio è il Silenzio, Dio è l’Assenza, Dio è la Solitudine degli uomini.
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Non ci sono bambini “innocenti.”
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Sono cieco, per caso, ma prima di perdere la vista, ho guardato più di mille volte le immagini che contemplerete.
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Nessuno deve commettere la stessa stupidaggine due volte, la scelta è sufficientemente ampia.
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Ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere.
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È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei.
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Qualche ora o qualche anno di attesa [della morte] è lo stesso, quando si è perduta l’illusione di essere eterno.
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Il sarcasmo è il rifugio dei deboli.
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Quando Dio tace, gli si può far dire quello che si vuole.
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Il mondo può benissimo fare a meno della letteratura. Ma ancor di più può fare a meno dell’uomo.
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La sua camicia di cotone azzurro spicca allegramente sulla parete color cioccolato. Anche questo dà la Nausea. O piuttosto, è la Nausea. La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa.
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Ero un bambino, cioè uno di quei mostri che gli adulti fabbricano con i loro rimpianti.
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Un brivido mi percorre dalla testa ai piedi: è… è lei che m’attendeva. Lei era lì, ergendo il suo busto immobile sopra la cassa, e sorrideva. Dal fondo di questo caffè qualcosa torna indietro sui momenti sparsi di questa domenica e li salda gli uni agli altri, dà loro un senso: ho traversato tutta questa giornata per venire a finir qui, con la fronte contro questo vetro, per contemplare questo volto fine che si schiude su una tenda granata. Tutto s’è fermato; la mia vita s’è arrestata: questo vetro, quest’aria greve, azzurra come l’acqua, ed io stesso formiamo un tutto immobile e compatto: sono felice.
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Anche se Dio esistesse, ciò non cambierebbe nulla.
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L’uomo è condannato a essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.
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Non voglio essere letto perché Nobel, ma solo se il mio lavoro lo merita.
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La verità m’appare d’un tratto: quest’uomo morirà presto. Di sicuro lo sa anche lui; basta che si sia guardato ad uno specchio: di giorno in giorno rassomiglia sempre più al cadavere che sarà. Ecco che cos’è la loro esperienza; ecco perché mi son detto tante volte che odora di morte: è la loro ultima difesa. Il dottore vorrebbe pur credervi, vorrebbe mascherarsi l’insopportabile realtà: ch’egli è solo, che non ha capito nulla, che non ha passato; con un’intelligenza che gli s’intorbida, e un corpo che si sfascia. E allora egli ha apprestato ben bene, ha ben sistemato e imbottito il suo piccolo delirio di compensazione: dice a se stesso che progredisce.
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Noi diventiamo ciò che siamo solo col radicale e profondamente insito rifiuto di ciò che gli altri hanno fatto di noi.
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Indebolire un pensiero per farlo comprendere non è poi gran male.
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La vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate la vita di per sé non è nulla; sta a voi darle un senso e il valore non è altro che il senso che scegliete.
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Non si giudica chi si ama.
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