L’immutabilità della storia dell’uomo, riflessione su Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

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«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.»
tomasi di lampedusa 8La citazione da me riportata sopra racchiude il pessimismo storico di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Un pessimismo che non investe solamente la storia della Sicilia, come alcuni critici hanno evidenziato, ma nasce da una profonda e amara consapevolezza di trovarci a vivere in un mondo statico, in particolar modo in un paese come l’Italia, che assiste al declino di un’epoca e guarda senza speranza alcuna l’avvento di una “nuova società” rivestita di un nulla che si ripete in tutti i periodi storici.
Nonostante il suo romanzo capolavoro “Il Gattopardo” sia ambientato in Sicilia, il messaggio che trapela dalle pagine di questo libro ha una valenza universale perché sintetizza la filosofia e la falsità di chi detiene il potere. E in quell’esilio esistenziale del protagonista si può facilmente riscontrare la personalità di un uomo che, nel fotografare le due anime della Sicilia, si rende conto che mai nulla potrà cambiare, a causa di una natura umana, certamente non appartenente solo ai siciliani, disperatamente immutabile. E ai siciliani onesti, così come ai cittadini liberi e coraggiosi che popolano altri paesi del mondo, viene ripetutamente sottratta l’unica vera ricchezza da loro posseduta: la speranza. Ma il romanzo non si limita solamente a sottolineare quell’impossibilità di cambiamento per quella piccola regione italiana da sempre martoriata. La posizione dello scrittore è particolarmente polemica nei confronti degli effetti di un processo di unificazione nazionale totalmente disinteressata a risolvere i problemi del Sud e di quel processo politico di trasformazione, così tanto osannato dai garibaldini che si basa solamente sull’apparenza e sulla menzogna. E se gli scaltri riescono ben adattarsi ad una nuova colonizzazione della Sicilia, gli intellettuali, da sempre e in tutte le parti del mondo, preferiscono mettersi in disparte; la massa è facilmente manipolabile e preferisce per lo più abbandonarsi rassegnatamente all’attesa di qualcosa che mai arriverà.
Nato a Palermo il 23 dicembre del 1896 da un’antica famiglia nobiliare, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, deve la sua fama ad un solo libro. Quell’unico romanzo da lui scritto e che è da considerarsi un capolavoro della letteratura italiana. Molto nota in tutto il mondo la superba trasposizione cinematografica effettuata da Luchino Visconti ed interpretata da Burt Lancaster, Alain Delon e Claudia Cardinale.
La sua infanzia è immersa nel silenzio solenne delle dimore aristocratiche, nella luce calda della Sicilia e nei rituali che scandiscono la vita di una classe sempre più anacronistica.
Dopo una giovinezza segnata dagli studi in diritto e dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, Tomasi torna a una vita riservata, rifugiandosi nei libri. Uomo di straordinaria cultura, innamorato della letteratura francese, russa e inglese, lettore instancabile di Stendhal, Proust, Shakespeare e Tolstoj. Eppure, fino alla tarda età, il suo talento narrativo rimane inesplorato. Quando decide di scrivere, lo fa quasi in segreto, come un atto intimo, senza mai immaginare il successo che avrebbe ottenuto dopo la sua morte.

Baronessa Alexandra von Wolff-Stomersee

Il matrimonio con Alessandra Wolff-Stomersee, una psicoanalista estone, segna un importante capitolo della sua vita, ma non lo distoglie dalla solitudine che caratterizza molti anni della sua esistenza.
Uomo dalla personalità schiva e solitaria, trascorre la sua vita dedicandosi alla lettura e ai viaggi in Europa. La sua più grande passione è la letteratura straniera, in particolar modo quella francese, a cui dedica due sue opere: “Lezioni su Stendhal“, “Invito alle lettere francesi del Cinquecento“. Il suo interesse per la narrativa nasce negli ultimi anni della sua vita e tra il 1955 e il 1956 scrive “Il Gattopardo“, il cui titolo si riferisce allo stemma del casato dei Salina, che raffigura un gatto dalla pelliccia leopardata su fondo blu.
Ancora in vita lo propone a varie case editrici senza alcun successo, e solo dopo la sua morte, che lo coglie a Roma il 23 luglio del 1957, Giorgio Bassani riesce a farlo pubblicare dalla casa editrice Feltrinelli nel 1958.
tomasi di lampedusa 9Il romanzo diventa subito un caso letterario, non solo per l’ironia che ne traspare nell’analizzare il paese del cambiamento che mai avverrà, ma anche per le critiche volte ad Elio Vittorinireo di essersi lasciato sfuggire un simile capolavoro in quanto responsabile della lettura degli inediti per la casa editrice Einaudi.
La storia, ambientata in Sicilia, si apre nel periodo dello sbarco di Garibaldi. Protagonista del romanzo è il principe di Salina, Don Fabrizio, uomo dalla personalità complessa che comprende immediatamente l’approssimarsi del declino dell’aristocrazia borbonica e l’ascesa inarrestabile della nuova classe borghese. Personaggio malinconico dai pensieri “funerei”, la sua implacabilità nell’osservare il mondo in cui vive gli fa presagire l’inconsistenza della forza innovatrice sorta con l’Unità d’Italia che recherà con sé solamente il tiepido bagliore di un cambiamento improbabile nell’atmosfera stagnante siciliana e l’avanzamento inesorabile di una classe borghese ignorante e arrampicatrice, spietatamente bramosa di denaro e potere che aggiungerà un ulteriore decadimento alla società. Contemplatore ma anche pragmatico, Don Fabrizio cerca di salvare quel che resta del suo ceto sociale puntando la sua attenzione sull’ambiguo nipote Tancredi che ben rappresenta il giovane ambizioso e opportunista in grado di adattarsi ai cambiamenti, agevolando la sua infatuazione per la bellissima Angelica, figlia del detestato arrivista Calogero Sedara, tipico esponente della nuova classe sociale emergente.

Burt Lancaster interpreta Don Fabrizio ne "Il Gattopardo" di Luchino Visconti (1963)

Burt Lancaster interpreta Don Fabrizio ne “Il Gattopardo” di Luchino Visconti (1963)

Disilluso dal declino del suo casato e dalla vacuità della vita, trova attimi di quiete nell’osservazione delle stelle, che rappresentano per il suo animo tormentato un rifugio dalle miserie della vita e dall’ipocrisia di una società patologicamente immutabile, e non solo in Sicilia, in cui « Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. »
Pietra miliare della letteratura italiana del ‘900, “Il Gattopardo” può essere annoverato tra quei pochi capolavori in grado di far riflettere sull‘immutabilità della storia dell’uomo ed i suoi eterni interrogativi sul significato della vita e la dura certezza della morte. E i politici, anch’essi banalmente statici e che, oggi come ieri, pur di ottenere il potere stanno eternamente sospesi con un piede sul governo passato e l’altro su quello che di nuovo ne ha solo l’apparenza, vengono delineati in modo realista. Forse a coloro che osservano attentamente il mondo non resta altro che guardare il cielo, così come fa Don Fabrizio, e cercare di distaccarsi, per quanto possibile, dal mondo reale.  Attraverso la lente di un mondo che svanisce, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ci ha regalato una visione universale del destino umano: un intreccio di bellezza, perdita e inesorabile trasformazione. Il Gattopardo non è, infatti, solo un romanzo storico, ma una profonda meditazione sull’identità, il potere e la condizione umana. Lampedusa esplora temi universali come il passare del tempo, il declino e l’ineluttabilità della morte, intrecciandoli con una critica sottile ma incisiva alla società e alla politica. Il romanzo è anche un tributo alla bellezza della Sicilia, che emerge con forza nelle descrizioni poetiche dei paesaggi e nelle atmosfere decadenti delle dimore nobiliari. Attraverso questa cornice, lo scrittore non solo racconta una storia, ma crea un mondo che continua a risuonare nei lettori di ogni epoca. Tomasi rimane il narratore per eccellenza del declino, ma anche il custode di una bellezza che resiste al tempo. Con la sua scrittura, ci invita a guardare al passato non con nostalgia, ma con consapevolezza, riconoscendo nella fine non solo una perdita, ma anche l’inizio di qualcosa di nuovo, per quanto fragile e incerto.

Di seguito alcune citazioni di questo straordinario scrittore.

giuseppe tomasi di lampedusa biografia e citazioni

Claudia Cardinale e Alain Delon, straordinari interpreti di Angelica e Tancredi nella versione cinematografica de “Il Gattopardo

Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone.
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Don Fabrizio pensò a una medicina scoperta da poco negli Stati Uniti d’America che permetteva di non soffrire durante le operazioni più crudeli, di rimanere sereni fra le sventure. Morfina lo avevano chiamato questo rozzo surrogato chimico dello stoicismo pagano, della rassegnazione cristiana.
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Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare.
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Ci rimane adesso di parlare di Emily, l’ardente, la geniale, l’indimenticabile, l’immortale Emily. Essa non scrisse che pochi versi, brevi liriche aspre, ferite, alla cui malia non si sfugge. E un romanzo. Wuthering Heights, un romanzo come non ne sono mai stati scritti prima, come non saranno mai più scritti dopo. Lo si è voluto paragonare a King Lear. Ma veramente, non a Shakespeare fa pensare Emily, ma a Freud; un Freud che alla propria spregiudicatezza e al proprio tragico disinganno unisse le più alte, le più pure doti artistiche. Si tratta di una fosca vicenda di odi, di sadismo e di represse passioni, narrate con un stile teso e corrusco spirante, fra i tragici fatti, una selvaggia purezza. Il romanzo romantico, se mi si consente il bisticcio, ha qui raggiunto il proprio zenith.
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Io sono una persona che sta molto sola; delle mie sedici ore di veglia quotidiane dieci almeno sono passate in solitudine. E non potendo, dopo tutto, leggere sempre, mi diverto a costruire teorie le quali, del resto, non reggono al minimo esame critico.
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tomasi di lampedusa 13
[…] In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.
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Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto.
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È meglio un male sperimentato che un bene ignoto.
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Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca.
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giuseppe tomasi di lampedusa biografia e citazioni
Il suo disgusto cedeva posto alla compassione per questi effimeri esseri che cercavano di godere dell’esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre prima della culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? […] Non era lecito odiare altro che l’eternità.
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Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. “Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si sentì stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, sopratutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.” Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.” Gli occhi ripresero a sorridere. “Per il Re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?” Abbracciò lo zio un po’ commosso. “Arrivederci a presto, Ritornerò col tricolore.” La retorica degli amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze.
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[…] questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.
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Morire per qualche d’uno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti.
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giuseppe tomasi di lampedusa biografia e citazioni

Luchino Visconti e Burt Lancaster sul set de “Il Gattopardo“.

[…]Ho settantatrè anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due tre al massimo. E i dolori, la noia quanti erano stati?…Tutto il resto: settant’anni.
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Vengono per insegnarci le buone maniere, ma non lo potranno fare perché noi siamo dei.
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Finché c’è morte c’è speranza.
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Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni di idee. “Adesso qui c’è buon odore, ma un mese fa…” Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato del 5º Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. […] Quando i commilitoni imbambolati lo ebbero poi portato via un De Profundis per l’anima dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario serale; e non se ne parlò più. […] L’immagine di quel corpo sbudellato riappariva però spesso nei ricordi come per chiedere che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe: superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità generale. Perché morire per qualche d’uno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia.
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Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Né l’uno né l’altro erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete, ma entrambi erano cari e commoventi mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all’orecchio e dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire.
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Noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si scampava dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai viceré spagnoli.
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I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria.
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Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblìo, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana.
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Tomasi di Lampedusa e Alexandra Wolff- Stomersee

La facoltà di ingannare se stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri.
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Aprì una delle finestre della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, in fondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibilmente piene di agguati, sembravano ammassi di vapori sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata attorno ai conventi come un gregge al piede dei pastori. Nella rada le navi straniere all’ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma maestosa.
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Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.
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L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos’era l’amore.
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Se da questa attitudine di Angelica si volesse dedurre che essa amava Tancredi, ci si sbaglierebbe: essa possedeva troppo orgoglio e troppa ambizione per essere capace di quell’annullamento, provvisorio, della propria personalità senza il quale non c’è amore.
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In Italia non si esagera mai in fatto di sentimentalismi e sbaciucchiamenti; sono gli argomenti politici più efficaci che abbiamo.
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  • […] «…Questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete…» Giuseppe Tomasi di Lampedusa […]

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