Marlon Brando, la nascita della recitazione moderna

Due volte vincitore del premio Oscar, Marlon Brando, ritenuto il più grande attore di tutti i tempi, ha rivoluzionato il mondo del cinema con un ineguagliabile stile recitativo che elimina lo star-system patinato di Hollywood della grandiosa teatralità a favore di un approccio psicologico più profondo nell’interpretazione di un personaggio. Anche la sua presenza fisica, atletica e imponente, in forte contrasto con il suo viso angelico, si distingue dalla norma degli attori di quel periodo, proponendo un nuovo sex symbol dalla bellezza disarmante ad un’America reduce dalla guerra, stanca di stereotipi e alla ricerca di qualcosa di ferocemente imprevedibile e totalmente rinvigorito.
Proprio in uno dei maggiori protagonisti del “Metodo Stanislavskij“, l’ancora scosso e inquieto pubblico statunitense incontrerà la più incisiva espressione di cambiamento della recitazione. Marlon Brando rappresenterà il ponte tra la purezza eroica delle star del passato (Gary Cooper, Gregory Peck, Henry Fonda) e una generazione di antieroi conflittuali profondamente umani che vede tra i più grandi interpreti James Dean, Robert De Niro, Al Pacino, Jack Nicholson, Anthony Hopkins e Sean Penn.
Uomini emotivamente vulnerabili e quindi pericolosi nello stesso tempo.
Uomini.
Semplicemente uomini.

Con Marlon Brando leggiamo la natura umana, non fuggiamo dal mondo reale sognando uomini che non esistono, ma osserviamo con attenzione quello che siamo e quello che la vita e la nostra inafferrabile natura potrebbe farci diventare. Per questo riusciamo a guardare oltre l’aspetto negativo dei personaggi da lui interpretati; la sua recitazione travolgente, quella “pura poesia in movimento“, citando il regista Martin Scorsese, riesce a renderci accattivanti persino le figure più ripugnanti. Ed il motivo è molto semplice: un uomo non è solo “ripugnante”, molte sono le sfumature del suo animo e, grazie alle sue superbe prove recitative, riusciamo ad afferrarle tutte.


Marlon Brando assimila la tecnica di recitazione codificata da Stanislavskij basata sull’approfondimento psicologico del personaggio da interpretare con lo scopo di portare sulla scena uomini credibili e naturali.
Una tecnica che non si limita  a creare un facsimile di emozioni del personaggio. Il cosiddetto “Metodo“, importato negli Stati Uniti dall’Actor’s Studio di Lee Strasberg, pretende che i suoi attori riescano a sentire veramente le stesse emozioni provate dal personaggio da interpretare. Quindi, se una scena richiede di mostrare il dolore estremo di un personaggio, l’interprete ha bisogno di interiorizzarne le emozioni sperimentando gli stessi sentimenti del personaggio e non cercando di imitarli nel miglior modo possibile. Non è da considerarsi infatti l’imitazione la vera recitazione. E se ormai ce ne rendiamo conto immediatamente quando ci troviamo dinnanzi a ridicole fiction o a film di pessimo livello in cui ci si accorge immediatamente che gli “attori” o le “attrici” non sono riusciti ad indossare i panni del personaggio da interpretare, mostriamo di essere in profondo debito nei confronti di Stanislavskij, di Marlon Brando e di attori di simile spessore.


Talvolta, se la scena è particolarmente drammatica e il personaggio è molto umano, le sue intense emozioni giungono all’attore in modo naturale. Ma non tutti sono in grado di connettersi empaticamente con lo stato emotivo del personaggio ed in quel caso il metodo proposto da Stanislavsky è quello di spingere l’attore a scavare nei meandri dei propri ricordi cercando di riviverli e di attingere così ad un’ esperienza di vita analoga. Un lavoro non proprio facile per il nostro attore che a tale tecnica recitativa ne coniuga un’altra profondamente diversa. Bisogna infatti sottolineare che è importantissimo nel suo percorso di formazione l’incontro con il maestro del teatro politico d’avanguardia Erwin Piscator, fuggito dalla Germania nazista e fondatore insieme a Stella Adler del Dramatic Workshop. Ritenuto uno dei massimi fondatori della regia moderna, Piscator ambisce ad una comunicazione cinematografica prettamente socio-politica.


Risulta sottinteso che limitarsi ad imparare i trucchi del Metodo non garantisce prestazioni di simil livello. È il profondo lavoro sul tormento interiore che distingue il nostro, la maniera in cui il Metodo ha scatenato i suoi conflitti e tormenti, qualità rare che hanno reso Brando un attore ineguagliabile. Il Metodo non fa altro che lasciar emergere la sua insicurezza, il suo calore, la sua rabbia, la sua crudeltà e la sua vulnerabilità, lasciando scivolare nell’oblio quegli aspetti eccentrici, sovente irritabili, della sua personalità.

Marlon Brando in una scena del film “Un tram chiama desiderio” (1951), diretto da Elia Kazan.

Inoltre, dalla sua peculiare formazione, che fonde due esperienze recitative molto diverse, sorge la rivoluzione artistica portata in scena da Marlon Brando. La sua è una recitazione intensa e sofferta che alterna toni sommessi e pause apparentemente sconnesse dal contesto a grida incomprensibili. 
Interprete carismatico e molto sensibile, con il suo sguardo profondo ed il sorriso affascinante, Marlon Brando ha dato vita a personaggi perlopiù ambigui, emotivamente vulnerabili ma estremamente pericolosi, talvolta insopportabili e molto complessi.


Con Brando il modo di recitare non sarebbe più stato lo stesso. La sua fragilità, il suo sguardo magnetico e la sua imprevedibilità hanno imposto nel mondo del cinema una presenza molto differente da quella che aveva caratterizzato gli attori che lo avevano preceduto. E se prima la recitazione era più incentrata sulla teatralità, con un risultato di modesto impatto emotivo, l’irruzione nel grande schermo di Marlon Brando apporta una decisiva rivoluzione nel mondo della recitazione. Marlon è un nervo scoperto, una ferita aperta dinnanzi al mondo, è indagine, riflessione, esplorazione, ricerca di sé.

Da “Un tram chiamato desiderio” (1951), diretto da Elia Kazan.

A differenza degli attori che avevano dominato la scena fino a quel momento, interpreti di figure invincibili, potenti, coraggiose, con Marlon Brando i numerosi volti del nostro animo, vulnerabile, sfuggente e contraddittorio, occupano finalmente un ruolo di primo piano in un cinema che va sempre più evolvendosi verso l’introspezione psicologica e le innumerevoli sfumature di ogni essere umano.
Nella fragile America di quel periodo, in cui molti giovani non erano più tornati dalla guerra, il pubblico desidera un cambiamento culturale. Il mutamento si attua soprattutto a New York, che nell’Actor’s Studio mostra una delle sue espressioni rivoluzionarie più note.


Brando ben apprende la lezione teatrale e debutta nel cinema abbandonando lo “stato attorico” (aktërskoe samočuvstvie). Il cinema è saturo di interpreti che simulano stati d’animo e cambia definitivamente rotta stravolgendo certe ferree regole hollywoodiane. L’attore rivive i sentimenti del protagonista e scava nel proprio passato per trovare delle affinità con quelle del personaggio da interpretare. La sua rara capacità di entrare nell’animo dei suoi personaggi, amplificandone le emozioni, spesso appena accennate nelle sceneggiature, condurranno Brando ad un successo sfolgorante che il tempo non riuscirà mai a mitigare.

Scena tratta dal film “Un tram chiamato desiderio” che vede protagonista e vincitrice del Premio Oscar Vivien Leigh.

Molto è stato scritto su Marlon Brando, nella maggioranza dei casi descritto come un uomo diffidente dal pessimo carattere, o in altri, estremamente sensibile e profondamente insicuro. Alcuni hanno preferito indugiare sulla sua vita privata, sulla relazione che si dice abbia intrattenuto con James Dean e su certi aspetti del suo temperamento, spesso spietato nei confronti delle donne, che amava far soffrire e condannare all’infelicità. La sua personalità contraddittoria e ribelle ha appassionato scrittori e giornalisti di tutto il mondo, che hanno anche evidenziato l’immensa sensibilità e l’altruismo di quest’uomo divenuto, insieme a James Dean e ad altri pochi attori in “stato creativo” (tvorceskoe samočuvstvie), per usare un termine caro a Stanislavsky , un’icona ribelle del cinema americano, grazie anche al modo di condurre la propria vita, all’insegna dell’esagerazione e del dissenso. Un attore che, nonostante abbia incarnato più generazioni di spettatori, è anche quello più difficile da comprendere.

Da “Il selvaggio”, 1953. Film diretto da László Benedek.

Nato a Omaha, nello stato del Nebraska, il 3 aprile del 1924, da un commesso viaggiatore e da un’attrice sul viale del tramonto, vive in maniera conflittuale e ostile il rapporto con il padre, legandosi invece in modo viscerale alla madre. Entrambi i genitori sono alcolisti e il piccolo Marlon impara sin da bambino a recitare dinnanzi alla madre per attirarne l’attenzione. Pur amando moltissimo il figlio, la donna lo trascura spesso, ma nei pochi momenti in cui gli si dedica riesce ad infondergli un grande amore per la natura.
L’infanzia del futuro attore è particolarmente traumatica. Oltre a crescere in mezzo all’alcool con genitori litigiosi e assenti, deve a volte anche andare in prigione per riportare a casa la madre ubriaca. Anthony Quinn disse alla prima moglie di Brando di ammirare il talento di Marlon, ma di non invidiare il dolore che l’aveva fatto emergere.
Il suo temperamento ribelle esplode sin da giovanissimo e per tale ragione il padre lo spinge ad intraprendere la carriera militare, che lo avrebbe costretto ad abituarsi a sottostare a regole rigide. Una decisione indubbiamente sbagliata; Brando verrà infatti presto espulso proprio per la sua repulsione nei confronti della disciplina.
Trasferitosi a New York nel 1943, forse per stare accanto alla sorella che lì studia recitazione, inizia a frequentare un corso di arte drammatica e debutta nel 1944 a Broadway. Di fondamentale importanza per la sua formazione, come già sottolineato prima, l’incontro con l’Actor’s Studio, Erwin Piscator ed Elia Kazan. La breve ma significativa esperienza teatrale si concluderà proprio grazie a quest’ultimo. Il noto regista resta profondamente colpito dalla recitazione di Brando nel film “Uomini” (1950) di Fred Zinneman,  dove ottiene il ruolo di un paraplegico reduce di guerra. Per interpretare questo personaggio alla perfezione Marlon Brando trascorre quaranta giorni in un ospedale specializzato con lo scopo di comprendere cosa significasse vivere sulla sedia a rotelle.

Marlon Brando in una scena del film “Uomini” (1950) di Fred Zinneman.

Il suo volto nuovo e la straordinaria interpretazione impressionerà Elia Kazan, alla ricerca di un cambiamento nel modo di fare cinema, ed il regista gli aprirà definitivamente le porte di Hollywood offrendogli il ruolo da protagonista nell’adattamento cinematografico dello struggente dramma di Tennessee Williams Un tram chiamato desiderio” (1951). Il film, che riscuoterà un enorme successo, gli procurerà la prima candidatura all’Oscar.

Marlon Brando e Vivien Leigh in “Un tram chiamato desiderio”.

Brando riesce ad imporre lo stile del suo personaggio, vestito semplicemente con un paio di jeans ed una maglietta, e a trasmettere una forte carica sessuale derivante dalla sua capacità di esprimere durezza e sadismo e, nel medesimo tempo, fragilità e ribellione, diventando in poco tempo, grazie anche alla sua interpretazione ne “Il selvaggio” (1953), il simbolo di una generazione insofferente e randagia che cerca di sfuggire alle regole imposte dalla società del tempo. Saranno sufficienti i pochi film interpretati negli anni ’50 a far sì che Marlon Brando entrasse nella leggenda.
Sotto la regia di Elia Kazan recita in “Viva Zapata“(1952) e in “Fronte del porto” (1954). Quest’ultimo, vincitore di otto premi Oscar, pur essendo giudicato dalla critica un film di mediocre valore, frutta a Brando il primo Oscar come migliore attore protagonista. Su tale onorificenza nessuno osa muovere una critica, ben consapevole dell’interpretazione magistrale e indimenticabile di un protagonista che sembra compiacersi di se stesso e che dona scene memorabili come quella del pestaggio, in cui, sanguinante e col passo incerto, si dirige verso il luogo di lavoro.

Una scena tratta dal film “Fronte del porto” (1954) di Elia Kazan.

Anche in questo film la sua recitazione incanta spettatori e critici per l’abilità di mostrare i lati psicologici e umani del personaggio, a tratti rude e a tratti insicuro, mostrando di aver ben appreso quel “Metodo” che rivoluziona il cinema.
Nel 1954, stanco di interpretare personaggi molto simili tra loro, decide di vestire ruoli diversi da quelli del suo esordio. Quella sperimentazione non sempre riuscirà ad accontentare le aspettative dei produttori. In quegli anni interpreta Napoleone in “Desirèe“, un giocatore in “Bulli e pupe” (1955), Sakini ne “La casa da tè alla luna d’agosto” (1956), il maggiore americano in Giappone “Sayonara” (1957), un soldato tedesco ne “I giovani leoni” (1958), e Christian Fletcher ne “Gli Ammutinati del Bounty” (1962), dove mostrerà un comportamento poco professionale che allontanerà produttori e registi, già particolarmente delusi dalle somme esorbitanti richieste per ogni ruolo e dal temperamento lunatico e poco affidabile dell’attore.

Una scena tratta dal film “Gli ammutinati del Bounty” (1962).

Con il passare degli anni perde la forma fisica di un tempo, ingrassando eccessivamente e mostrando indifferenza nei confronti del cinema. Il suo principale interesse è rivolto alle lotte per la difesa dei neri, degli ebrei e dei pellerossa. Si sposa più volte in modo avventato e, oltre ai figli riconosciuti, molte sono le paternità attribuitogli. Le sue relazioni sentimentali si concludono con un doloroso addio e non poche le donne che si uccidono (si dice siano state sei) o che tentano il suicidio dopo la fine del tormentato rapporto con il noto attore. S’illude di esser riuscito a fuggire dalla società occidentale e di aver trovato il paradiso stabilendosi nell’isola di Tetiaroa, vicino Tahiti. Ma ben presto subentra la delusione e Brando abbandona l’attivismo, forse per la consapevolezza dell’impossibilità di cambiare il mondo. Oppure perché travolto da enormi problemi familiari e forse colpito da depressione. D’altronde non pochi sono i problemi che investono la sua famiglia: il primo figlio uccide l’amante della sorellastra Cheyenne e viene condannato a dieci anni di carcere. Qualche tempo dopo Cheyenne si toglierà la vita.
La carriera di Marlon Brando sembra essere ormai giunta alla fine. Tuttavia, negli anni Settanta, dopo aver interpretato il film di PontecorvoQueimada” (1969), si rinverdiscono i fasti dei primi successi con un clamoroso ritorno nel grande schermo grazie a due registi che non vogliono veder sfumare la grandezza di Brando e gli offrono due ruoli molto differenti e di non facile interpretazione. Altri due personaggi complessi che segneranno la storia del cinema e stupiranno ancora una volta critica e pubblico.

Marlon Brando ne “Il padrino”, 1971.

L’indimenticabile interpretazione ne “Il padrino” (1971), capolavoro indiscusso di Francis Ford Coppola gli vale il secondo Oscar della sua carriera, premio che mai ritirerà personalmente, delegando al suo posto una giovane attrice Sioux. La sua è una singolare protesta rivolta alla politica statunitense, notoriamente poco tenera nei confronti dei pellerossa. L’ancora esordiente ma risoluto regista del film in questione, a dispetto dei produttori che preferirebbero non intrattenere alcun rapporto lavorativo con Brando, resta profondamente colpito dalla genialità di Marlon Brando, che riesce a realizzare da sé un singolare trucco per potere incarnare alla perfezione il personaggio leggendario di Don
Vito Corleone
, boss di una potente famiglia mafiosa. Capelli impomatati e pettinati all’indietro, guance imbottite di fazzoletti di carta e lucido di scarpe sulle guance e sulla fronte. In pochi minuti Coppola resta folgorato da tale trasformazione.


Nel controverso e drammatico “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci (1972), sebbene oggetto di scandalo e antistoriche polemiche, in particolar modo in Italia, che il 30 dicembre del 1972 lo ritirerà dalle sale cinematografiche e lo condanna al rogo a causa di alcune esplicite scene sessuali, Brando sbalordirà ancora una volta gli spettatori e i critici.
Poche le copie salvate del film in questione, ritenuto scandaloso per “l’esasperato pansessualismo fine a se stesso“. Solamente nel 1987, sarà riammessa la visione di “Ultimo tango a Parigi” in Italia con la seguente motivazione: «Amore e morte, sesso e distruzione, piacere e crisi, sono i temi che fanno di Ultimo tango a Parigi un film con piena dignità di opera d’arte». Una vergogna tutta italiana nei confronti di un capolavoro doloroso e romantico nel quale l’attore interpreta in modo sublime la sofferenza di un uomo di mezza età annientato dalla vita e volto ad una lenta e sofferente autodistruzione. Una morte che si consuma in un grigio appartamento parigino dove predominano lunghi silenzi, sguardi fugaci, brevi e impercettibili movimenti.
Dopo queste due superbe interpretazioni, gli unici film interpretati da Brando degni di menzione in mezzo a brevi apparizioni pagate anche un miliardo al minuto, sono “Apocalypse Now” (1979), ancora una volta diretto da Francis Ford Coppola, “Un’arida stagione bianca” (1989) e Don Juan De Marco (1995) e “The Score” (2001).
Puro cinema, pura poesia. Forse le parole di Al Pacino riescono a far cogliere la grandezza di Marlon Brando; dopo aver girato “Il padrino”, così commenta la sua esperienza: “È come recitare con Dio“.

Una scena tratta da “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola.

Nonostante negli ultimi anni della sua vita sia afflitto da enfisema polmonare, Marlon Brando, prima di spegnersi per una crisi respiratoria (il 2 luglio del 2004 a Los Angeles) inizia a progettare un film dal titolo “Brando and Brando“, mai portato a termine.
Riuscire a concludere un omaggio a questo immenso attore non è facile: il desiderio di continuare ad approfondire e analizzare la sua rivoluzione nel mondo del cinema è irrefrenabile. Affido alle parole di Luciano Ligabue la conclusione di questo mio piccolo tributo a Marlon Brando: «Di lui alcuni hanno detto che fosse uno stronzo colossale. Altri al contrario hanno detto che fosse uno dei più grandi geni mai esistiti. Come al solito la verità la sapeva soltanto lui, solo che non ce la può più raccontare perché se n’è andato. Solo che quelli come lui non se ne vanno per sempre: rimangono incastrati in qualche pellicola, in qualche pezzo della nostra anima, in qualche parte della nostra vita, perché, perché Marlon Brando è sempre lui!».
Di seguito alcune delle scene più memorabili dei film da Marlon interpretati, insieme a pochi dei suoi pensieri giunti a noi.

Comprendere il pieno significato della vita è il dovere dell’attore, interpretarlo è il suo problema, ed esprimerlo è la sua passione.

L’unica ragione per cui rimango ad Hollywood è che non ho il coraggio morale di rifiutare i soldi.

L’attore è un tizio che se non stai parlando di lui non ti ascolta.

La comunità cinematografica è responsabile di aver descritto l’indiano come un selvaggio, ostile, simbolo del male. E’ già abbastanza difficile per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini indiani vedono la loro razza dipinta come nei film, le loro menti vengono ferite in modi che non possiamo immaginare.

Come puoi fare per sopravvivere nel mondo del cinema? Non lo so. So solo che più sarai sensibile e più ti maltratteranno, l’unica cosa che puoi fare è costruirti una bella corazza e andare avanti.

La recitazione è l’espressione di un impulso nevrotico.

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web, quindi considerati di pubblico dominio e appartenenti a google, a youtube e ai legittimi proprietari. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo lacapannadelsilenzio@yahoo.it e saranno immediatamente rimossi.

Digiprove sealCopyright secured by Digiprove © 2017
Acknowledgements: Immagini e video reperiti nel web.

5 commenti

Lascia un commento

error: Content is protected !!