Il grido dilaniante di Sylvia Plath

E quando finalmente trovi qualcuno su cui senti di poter riversare la tua anima, ti blocchi sconvolta dalle tue stesse parole: le hai tenute in quella piccola stretta oscurità dentro di te così a lungo, che sono arrugginite, brutte, banali, fiacche.”

Sublime esponente della poesia confessionale e voce innovativa della poesia del Novecento,  Sylvia Plath usa un potente approccio autobiografico e intensamente emotivo nelle sue ineguagliabili opere, specchio di un complesso e tormentato mondo interiore, che la spingerà al suicidio in giovanissima età. La sua opera, il cui tema ricorrente è quello della morte, non abbraccia solamente il proprio tormentato io, ma racchiude altresì tematiche politiche ancora oggi attuali.
Estremamente sensibile, sogna di diventare una donna perfetta. Non solo moglie e madre. Non solo donna innamorata. Desidera anche essere riconosciuta come scrittrice. Rifiuta di “essere un puro avvenimento nella vita di qualcun altro“. Troppi i conflitti che lacerano la sua mente e forse il suo suicidio, così come quello di altri esseri umani più o meno noti, sembra essere già annunciato nei suoi scritti e nel dolore che accompagna la sua vita, un dolore talmente insostenibile che riuscirà a darle la forza di infilare la testa dentro il forno e di aprire il rubinetto del gas. Il gas diviene l’anestetico per tanta sofferenza e impotenza dinnanzi ad un mondo incapace di comprendere la grandezza della sua anima. Sylvia Plath è già morta prima di quell’estremo gesto. Morta di solitudine e mancanza di amore. La sua opera, inseparabile dalla sua tormentata esistenza, mostra un profondo bagaglio di disaccordo con la vita. Intelligente e ambiziosa si muove in un periodo storico in cui la lotta per l’emancipazione femminile non è ancora cominciata e le donne sono ancora le vittime predilette di rigidi schemi mentali. Le crisi depressive vengono curate con potenti tranquillanti ed elettroshock, come succede alla nostra stessa scrittrice durante un periodo di ospedalizzazione psichiatrica. Poetessa e scrittrice di notevole impatto emotivo, usa parole forti e crude per esprimere i suoi dilemmi esistenziali. Il suo è un linguaggio chiaro e privo di fronzoli o parole ricercate e per questa ragione i suoi scritti restano scolpiti nella nostra mente. Il suo disperato desiderio di vivere si traduce con un’ incessante ossessione per la morte. Un’ossessione che si sposa perfettamente con il suo spasmodico desiderio di vivere e di lasciare un’impronta indelebile che possa dare un senso alla vita ed arrestarne l’inesorabile scorrere. La vita è un’impresa eroica estenuante, il tempo scorre troppo in fretta e Sylvia vorrebbe tutto subito. L’ossessione che la sua arte venga riconosciuta e nello stesso tempo l’irrinunciabile necessità di essere accettata dalla società, mostrano una personalità proiettata verso un utopico obiettivo di perfezione che non ammette soste o cadute: qualsiasi fisiologico errore o impedimento viene da lei giudicato impietosamente.

Quando si leggono le sue poesie, si ha la netta sensazione di conoscere personalmente chi le ha scritte; Sylvia Plath parla infatti di cose semplici e vere che appartengono al vissuto di ognuno di noi. Forse il suo più grande talento risiede nella capacità di trasformare le esperienze quotidiane in poesie. La sua poesia è un diario che registra non solo esperienze a pieno titolo ma anche percezioni acute e una vasta gamma di stati d’animo tradotti attraverso immagini, suoni e colori. Ma proprio perché priva di fronzoli, la poesia di Sylvia riesce a far male.
E ci trasporta brutalmente nella sua fervida immaginazione.
Sylvia non ha paura di mettere per iscritto ogni suo pensiero, e non pretende di essere compresa da tutti.
La sua è infatti una poesia per pochi. 


Le sue liriche sono caratterizzate da versi vigorosi, sensibilità e abilità tecnica, sicurezza del tono, fermezza di stile e purezza lessicale, con una simbologia del tutto personale. Una poesia piena di balzi fantasiosi, parole che catturano tutta la nostra attenzione e giochi linguistici sorprendenti che mostrano la sua personalità audace e trasgressiva.

La sua è una poesia di grande intensità, che quando la si scopre, ti raggiunge nel profondo. Sylvia Plath è un personaggio affascinante e la sua poesia non lo è da meno.


Sylvia Plath nasce il 27 ottobre del 1932 a Jamaica Plain, un distretto di Boston, da genitori immigrati; la madre, Aurelia Schober, appartiene ad una famiglia austriaca emigrata nel Massachusetts, mentre suo padre, Otto Emil Plath, di famiglia tedesca, si trasferisce negli Stati Uniti a sedici anni e diviene in seguito uno stimato entomologo.
Nel 1935, in seguito alla nascita del secondo figlio, Warren, la famiglia Plath si trasferisce a Winthrop, ad est di Boston.
Sylvia mostra sin da bambina una faticosa capacità di “sentire” che concretizza nel suo rifugio creativo, nello scrivere poesie sin da bambina, nel libero fluire delle parole. La sua prima poesia, scritta all’età di otto anni, viene pubblicata sul Boston Herald.
Come spesso accade a molte bambine, Sylvia avverte un profondo senso di abbandono alla nascita del fratello, il figlio maschio tanto atteso, che le sottrae tempo e attenzione da parte dei genitori. “Un freddo polare” che le gela le ossa e lascia attecchire sentimenti contrastanti e autodistruttivi, ingestibili per una bambina. Soprattutto se il padre si spegne prematuramente e il dolore per la sua morte si accompagnerà ad un lacerante senso di colpa sorto dall’ingenua convinzione di averne provocato la dipartita con i suoi sentimenti di odio. Sensi di colpa e sentimenti di abbandono saranno suoi compagni fedeli durante la sua breve vita e daranno origine a quelle profonde insicurezze che solo una figlia non amata conosce e può comprendere. Ed i fogli bianchi che sente il bisogno continuo di riempire con un flusso anarchico di parole, sembra rappresentare quel vortice di vuoto che la inghiotte e che viene momentaneamente colmato con la scrittura. Nella sua poesia palpitante si avverte un grido di amarezza contro la pochezza della vita e le sue promesse non mantenute.


Segnata profondamente dalla morte del padre, la cui assenza viene vissuta come un tradimento, e dal rapporto soffocante con la madre, alla quale mostra solamente ciò che l’avrebbe resa degna della sua approvazione, Sylvia cresce nella convinzione di non valere nulla e di non essere importante per nessuno. Sentimenti duri e insopportabili che troveranno sfogo nella sua relazione con la scrittura, vissuta come la necessità impellente di dare un significato alla propria vita. Il padre, assurgerà a simbolo delle relazioni conflittuali con le figure maschili della sua vita e che, nella nota poesia “Papà“, Sylvia descriverà con parole forti e struggenti, che caratterizzano l’impeto violento del suo stile.

Papà

Non servi, non servi più,
O nera scarpa, tu
In cui trent’anni ho vissuto
Come un piede, grama e bianca,
Trattenendo fiato e starnuto.

Papà, ammazzarti avrei dovuto.
Ma sei morto prima che io
Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,
Statua orrenda dal grigio alluce
Grosso come una foca di Frisco

E un capo nell’Atlantico estroso
Al largo di Nauset laggiù
Dove da verde diventa blu.
Un tempo io pregavo per riaverti.
Ach, du.

In tedesco, in un paese
Di Polonia al suolo spianato
Da guerre, guerre, guerre.
Ma il paese ha un nome molto usato.
Un amico mio polacco

Mi dice che ce n’è un sacco.
Così non ho mai saputo
Dov’eri passato o cresciuto.
Mai parlarti ho potuto.
Mi s’incollava la lingua al palato.

Mi s’incollava a un filo spinato.
Ich, ich, ich, ich,
Non riuscivo a dir di più di così.
Per me ogni tedesco era te.
E quell’idioma osceno

Era un treno, un treno che
Ciuff-ciuff come un ebreo portava via me.
A Dachau, Auschwitz, Belsen.
Da ebrea mi mettevo a parlare,
E lo sono proprio, magari.

Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna
Non son molto pure o sincere.
Per la mia ava zingara e fortunosi sbocchi
E il mio mazzo di tarocchi e il mio mazzo di tarocchi
Qualcosa di ebreo potrei avere.

Ho avuto sempre terrore di te,
Con la tua Luftwaffe, il tuo gregregrè.
E il tuo baffo ben curato
E l’occhio ariano d’un bel blu.
Uomo-panzer, panzer, O tu –

Non un Dio ma svastica nera
Che nessun cielo ci trapela.
Ogni donna adora un fascista,
La scarpa in faccia, il brutale
Cuore di un bruto a te uguale

Tu stai alla lavagna, papà,
Nella foto che ho di te,
Biforcuto nel mento anziché
Nel piede, ma diavolo sempre,
Sempre uomo nero che

Con un morso il cuore mi fende.
Avevo dieci anni che seppellirono te.
A venti cercai di morire
E tornare, tornare a te.
Anche le ossa mi potevano servire.

Ma mi tirarono via dal sacco,
Mi rincollarono i pezzetti.
E il da farsi così io seppi.
Fabbricai un modello di te,
Uomo in nero dall’aria Meinkampf,

E con il gusto di torchiare.
E io che dicevo sì, sì.
Papà, eccomi al finale.
Tagliati i fili del nero telefono
Le voci più non ci possono miagolare.

Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi –
Il vampiro che diceva essere te
E un anno il mio sangue bevé,
Anzi sette, se tu
Vuoi saperlo. Papà, puoi star giù.

Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.
Mai i paesani ti hanno amato.
Ballano e pestano su di te.
Che eri tu l’hanno sempre capito.
Papà, carogna, ho finito.


Due anni dopo la morte del marito, Aurelia e i suoi bambini si trasferiscono a Wellesley. Nel 1950 Sylvia ottiene una borsa di studio che le consente di accedere allo Smith College, una scuola femminile nel Northampton, dove si diplomerà cinque anni dopo con il massimo dei voti. Negli anni del college continua a scrivere poesie e racconti, pubblicati in riviste locali e nazionali, ma sorgono nello stesso periodo i primi sintomi di quel male oscuro che tormenterà la sua esistenza. La depressione, quella protesta in grigio verso quel senso di abbandono che mai smetterà di tormentarla, la condurrà ad instaurare relazioni di estrema dipendenza nei confronti non solo della scrittura, ma anche del tabacco, del sesso, dell’alcool e delle persone che ama. Quel desiderio di perfezione, impossibile da realizzare, limiterà spesso la sua vita ed il suo sfogo creativo. Un giorno di agosto del 1953, si allontana e viene trovata, dopo lunghe ricerche, incosciente, con un flacone di pillole. A causa di questo primo tentativo di suicidio, viene ricoverata e sottoposta a elettroshock e psicoterapia.


La sua vita riprende grazie ad un’altra borsa di studio che le consente di frequentare l’Università di Cambridge dove continua a dedicarsi alla sua passione per la poesia. A Cambridge conosce il poeta inglese Ted Hughes, con cui convolerà a nozze il 16 giugno del 1956. Combattuta tra i valori della società americana, in cui il successo viene considerato un obiettivo fondamentale nella vita, e il suo nuovo ruolo di moglie, a cui pur aveva sempre aspirato, Sylvia sembra ben incarnare il conflitto che attanaglia ogni donna di quel periodo, ed in molti casi, anche quello della donna di oggi. La sua fragilità psichica viene messa a dura prova da questo insano desiderio di perfezione, dietro cui si evince un malcelato bisogno di essere accettata e di eccellere in tutti quei ruoli che la società le richiede.

Sylvia Plath e Ted Hughes

Fondamentale per la crescita stilistica di Sylvia il periodo trascorso negli Stati Uniti, subito dopo le nozze, in cui, oltre a lavorare come insegnante allo Smith College, partecipa a dei seminari di scrittura creativa tenuti da Robert Powel. Qui stringe importanti amicizie, tra cui quelle con i poeti Anne SextonWilliam Stanley Merwin. Uniti dalla passione per la poesia, Sylvia e Ted vivono felicemente l’inizio della loro vita matrimoniale, ma con il ritorno in Gran Bretagna e la nascita di due figli, Freeda e Nicholas, giungono i primi problemi. I due si trasferiscono prima a Londra e poi a North Tawton, piccola città commerciale nel Devon. Sylvia pubblica la sua prima raccolta di poesie, “The Colossus“, nel 1960. Ma se prima della nascita dei suoi bambini la donna riesce a conciliare la sua attività di scrittura con quella di moglie, con la maternità la sua creatività sembra appannarsi. Ed il vuoto lasciato da un padre assente e da un marito che alle prime avvisaglie di crisi, non esita a tradirla, minano ancor più la sua fragilità psichica. Il tradimento di Ted rinnova il mai sopito dolore del passato.

La nascita della relazione tra Ted e Assia Wevill, moglie di un amico poeta, accresce la frustrazione di Sylvia, che dimentica in un batter d’occhio la brillante studentessa, la bravissima insegnante, l’amorevole madre e l’appassionata moglie, tutto ciò che è stata ed è. Niente riesce a placare l’inquietudine di Sylvia la cui vita sembra trascinarsi su un sentiero buio e asfittico. Il matrimonio con Ted si conclude con una traumatica separazione. La donna si trasferisce a Londra con i figli e affitta l’appartamento in cui aveva abitato William Butler Yeats.
Sono anni duri, anni di ristrettezze economiche e di enormi sacrifici, ma anche anni di intensa attività; prendono vita in questo periodo le sue poesie più intense.  Sylvia non smette mai di scrivere e lo fa di notte, quando i suoi bambini dormono. Madre di giorno e scrittrice di notte, nel 1963 pubblica il romanzo “La campana di vetro“, in parte autobiografico, con lo pseudonimo di Victoria Lucas. Dal ritmo incalzante e a tratti claustrofobico, il libro riesce a trasmettere la sensazione di trovarsi dentro la stessa campana di vetro in cui è imprigionata la protagonista, che recita alla perfezione il ruolo di moglie e madre senza alcuno scopo, se non quello di seguire le convenzioni imposte dalla società. È questo il destino delle donne, costrette a operare una scelta tra le loro passioni o essere madri e mogli? Interrogativi ancor oggi attuali, se si pensa che in non pochi casi, a molte donne di oggi non resta che correre e affannarsi nel tentativo, sovente frustrante, di conciliare lavoro e famiglia. Certo la situazione non è così drammatica come quella ritratta da Sylvia, ma quella domanda asfissiante della scrittrice emerge continuamente. Anche oggi.
Sylvia straccia il sipario di una scialba esistenza femminile e mostra cosa realmente accade dietro le quinte, quella terribile e vera condizione della donna nel periodo in cui vive. Il romanzo viene accolto tiepidamente rispetto alle aspettative della scrittrice, la cui sofferenza non viene mitigata nemmeno dal grande amore verso i suoi figli, e trabocca irrimediabilmente fino al suicidio con il gas, l’undici febbraio del 1963. Dopo aver scritto la poesia “Orlo” e preparato la colazione ai suoi bambini, la donna sigilla porte e finestre, infila la testa nel forno e apre il rubinetto del gas. Tutto questo accade solo pochissimo tempo dopo la pubblicazione del libro.


Sarà Ted a custodire l’opera letteraria dell’ex moglie, distruggendo però l’ultimo volume del diario di Sylvia, quello in cui la poetessa descrive la propria relazione con il marito. Tale decisione viene presa insieme alla madre di lei che giudica controverse le pagine di quella parte del diario. Proprio lei che aveva incoraggiato la figlia a tenere un diario sin da bambina.
Sei anni dopo la morte della scrittrice, Assia si suicida nello stesso modo di Sylvia e trascina con sé la figlioletta Shura, di appena quattro anni, nata dall’unione con Ted.

L’opera di Sylvia Plath sarà riconosciuta a quasi vent’anni dalla sua morte, nel 1982 le viene infatti conferito il premio Pulitzer per la poesia.
Nonostante il tragico epilogo della sua vita, questa grande poetessa è riuscita a trasmettere un messaggio di fondamentale importanza, quello di inseguire le proprie passioni e di realizzare pienamente se stessi, costi quel che costi. Mamma per tutto il giorno, riesce a ritagliarsi uno spazio per poter scrivere. E lo fa quando è svanito l’effetto dei sonniferi e si trova faccia a faccia con i suoi demoni, che solo la scrittura riesce a placare. Scrive fino al risveglio dei suoi figli e grazie alla sua determinazione, poco prima di morire ha già scritto la raccolta di poesie, Ariel, pubblicata postuma, che le consente di essere annoverata tra i grandi della letteratura.
Desidero omaggiare questa grande donna condividendo qui alcune delle sue poesie.


Orlo

La donna è la perfezione.
Il suo morto
Corpo ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità
scorre lungo i drappeggi della sua toga,
i suoi nudi
piedi sembran dire:
abbiamo tanto camminato, è finita.
Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
come un bianco serpente a una delle due piccole
tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti
Dentro il suo corpo come petali
di una rosa richiusa quando il giardino
s’intorpidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.
Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d’osso.
A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.

Papaveri a luglio 

Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferità così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza, senza colore.

Per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa, muore. Ma non si può ricominciare a ogni nuovo attimo, ci si deve basare su quelli già morti. È un po’ come le sabbie mobili… senza scampo fin dall’inizio. Un racconto, un quadro possono far rivivere un poco la sensazione, ma mai abbastanza, mai abbastanza. Niente è reale, eccetto il presente, e io mi sento già soffocare sotto il peso dei secoli. Un centinaio di anni fa una ragazza ha vissuto come vivo io. Poi è morta. Io sono il presente, ma so che anch’io me ne andrò. L’istante sublime, la fiamma che consuma arriva e subito scompare: sabbie mobili, sempre. E io non voglio morire.

Monologo delle 3 del mattino

È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.

Ariel 

Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.

Lady Lazarus

L’ho rifatto.

Un anno ogni dieci
ci riesco –
una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
splendente come un paralume nazi,
un fermacarte il mio
piede destro,
la mia faccia un anonimo, perfetto
lino ebraico.
Via il drappo,
o mio nemico!
Faccio forse paura? –
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
in un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
che il sepolcro ha mangiato si sarà
abituata a me
e io sarò una donna che sorride.
Non ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
da far fuori a ogni decennio.
Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante noccioline
si accalca per vedere
che mi sbendano mano e piede –
il grande spogliarello.
Signori e signore, ecco qui
le mie mani,
i miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta successe che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
a insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
e staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
è un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.
È facile abbastanza da farlo in una cella.
È facile abbastanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale
ritorno in pieno giorno
a un posto uguale, uguale viso, uguale 
urlo divertito e animale:
“Miracolo!”
È questo che mi ammazza.
C’è un prezzo da pagare
per spiare le mie cicatrici,
per auscultare il mio cuore –
eh sì, batte.
E c’è un prezzo, un prezzo molto caro,
per una toccatina, una parola,
o un po’ del mio sangue
o di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr Nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
creatura d’oro puro
che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere –
Voi attizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate –
un pezzo di sapone,
una fede nuziale,
una protesi dentale.
Herr Dio, Herr Lucifero,
attento,
attento.
Dalla cenere io rinvengo
con le mie rosse chiome
e mangio uomini come aria di vento.

 I tulipani

I tulipani sono troppo eccitabili, è inverno qui,
guarda quanto ogni cosa sia bianca, quieta e innevata.
Imparo la pace, mentre si posa quieta a me vicina
come la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e i vestiti alle infermiere
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.

Hanno appoggiato la mia testa tra cuscino e bordo del lenzuolo
come un occhio fra palpebre bianche che non si chiuderanno.
Stupida pupilla, di tutto deve fare incetta.
Le infermiere passano e ripassano, non disturbano,
passano come i gabbiani verso terra nelle loro cuffie bianche,
facendo cose con le mani, uguali l’una all’altra,
così che è impossibile dire quante siano.

Il mio corpo è un sasso per loro, vi si apprestano come l’acqua
ai sassi sui quali deve scorrere, levigandoli garbata.
Mi danno il torpore con i loro aghi luccicanti, mi danno il sonno.
Adesso ho perduto me stessa sono stanca di bagagli –
la mia borsa di pelle come un nero portapillole,
mio marito e il bambino sorridono nella foto di famiglia;
i loro sorrisi mi agganciano la pelle, piccoli ami sorridenti.

Ho gettato cose in mare, io cargo di trent’anni
tenacemente attaccata al mio nome e indirizzo.
Hanno strofinato via tutti i miei affetti.
Impaurita e denudata sulla plastica verde della barella
ho guardato la mia teiera, il comò della biancheria, i miei libri
affondare lontani, e l’acqua arrivarmi sopra la testa.
Sono una suora adesso, mai stata cosi’ pura.

Non volevo fiori, volevo soltanto
sdraiarmi a palme in su completamente vuota.
Come si sia liberi, non avete idea quanto liberi –
la pace è cosi’ grande che abbaglia,
non chiede nulla, un’etichetta col nome, qualche bazzecola.
Con questa, alla fine, chiudono i morti; li immagino
masticarsela come un’ostia da Comunione.

I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi feriscono.
Anche attraverso la carta da regalo li sentivo respirare
piano, attraverso la bianca fasciatura, come un bimbo mostruoso.

Rossastri parlano alla mia ferita, le rispondono.
Sono traditori: sembrano ondeggiare, anche se mi tirano giù,
scompigliandomi con le loro lingue inattese e il colore,
una dozzina di rossi piombi intorno al mio collo.

Prima nessuno mi sorvegliava, adesso sono sorvegliata.
I tulipani si voltano verso di me, e la finestra dietro
dove quotidianamente la luce si allarga e si assottiglia,
io mi vedo, piatta, ridicola, ombra di carta ritagliata
fra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani consumano il mio ossigeno.

Prima che arrivassero l’aria era abbastanza calma,
pulsava, respiro dopo respiro, senza scompiglio.
Poi i tulipani l’hanno riempita di un gran rumore.
Ora l’aria spinge e gli vortica attorno come un fiume
spinge e vortica attorno a una macchina rosso-ruggine affondata.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
giocando e riposando senza impegnarsi.

Anche i muri sembrano riscaldarsi tra loro.
I tulipani dovrebbero stare dietro le sbarre come bestie pericolose;
si aprono come la bocca di un grosso felino africano,
ed io mi accorgo del mio cuore: apre e chiude
la sua ampolla di rossi boccioli per vero amor mio.
L’acqua che assaggio è calda e salata come il mare,
e viene da un paese lontano come la salute.

Io sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

Specchio

Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti.
Quello che vedo lo ingoio all’istante
così com’è, non velato d’amore o da avversione.
Non sono crudele sono solo veritiero –
l’occhio di un piccolo dio quadrangolare.
Passo molte ore a meditare sulla parete di fronte.
E’ rosa e macchiettata. La guardo da tanto tempo
che credo che faccia parte del mio cuore. Ma c’è e non c’è.
Facce e buio ci separano ripetutamente.

Ora sono un lago. Una donna si china su di me,
cercando nella sua distesa ciò che lei è veramente.
Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde.
Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Lei mi ricompensa con lacrime ed un agitare di mani.
Sono importante per lei. Va e viene.
Ogni mattina è la sua faccia che prende il posto del buio.
In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia
sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce
tremendo.

Lettera d’amore

Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.
Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-
e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
di comprendere l’azzurro, o le stelle.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
mascherato da sasso nero tra i sassi neri
nel bianco iato dell’inverno-
come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente cesellate
che si posavano a ogni istante per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
angeli piangenti su nature spente,
Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
pietre stolide e inespressive,
Io guardavo e non capivo.
Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
per riversarmi fuori come un liquido
tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.
Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
Ora assomiglio a una specie di dio
e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. È un dono.

La luna e il cipresso

Questa è la luce della memoria, fredda e planetaria.
Neri sono gli alberi della memoria, azzurra la luce.
L’erba riversa ai miei piedi, quasi io fossi Dio, le sue pene,
pungendomi le caviglie e mormorando umiltà.
Fumosi, spiritali vapori abitano questo luogo
Che una fila di lapidi separa dalla mia casa.
Insomma, non riesco a vedere il posto che ci aspetta.

La luna non è una porta ma precisamente una faccia
Bianca come una nocca e terribilmente sconvolta.
Attira il mare come un buio delitto, tranquilla
Nell’O della sua bocca spalancata e disperata. Io
Abito qui. La domenica due volte squassano il cielo
Le campane – otto lingue clamanti Resurrezione.
Placate, infine scandiscono i loro nomi.

Il cipresso punta in su, ha un profilo gotico.
Gli occhi seguendolo trovano la luna.
La luna è mia madre. Non è dolce come Maria.
Le sue azzurre vesti sprigionano pipistrelli e civette.
Come vorrei credere nella tenerezza –
Il volto dell’effigie, ingentilito da candele,
chino proprio su me, i miti occhi.

Fu lunga la mia caduta. Le nuvole fioriscono
Azzurre e mistiche sulla faccia delle stelle.
Dentro la chiesa, saranno tutti azzurri i santi che sfiorano coi teneri piedi i freddi banchi,
Le mani e le facce rigide di santità.
Niente di ciò vede la luna; è vuota e desolata.
E il messaggio del cipresso e nerezza – nerezza e silenzio.
***
Non potrò mai leggere tutti i libri che voglio. Non potrò mai essere tutte le persone che voglio e vivere tutte le vite che voglio. Non potrò mai esercitarmi in tutte le abilità che voglio. Io voglio vivere e sentire tutte le sfumature, i toni e le variazioni di tutte le esperienze fisiche e mentali possibili nella vita. E sono orribilmente limitata.
***

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