Vittime dell’indifferenza _ Ecco dove dormono i bambini che fuggono dalla guerra

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«Ogni uomo è colpevole di tutto il bene che non ha fatto».
Voltaire

 

Magnus Wennman insieme a due piccoli profughi.

Magnus Wennman insieme a due piccoli profughi.

La citazione di Voltaire introduce una riflessione che il noto fotoreporter svedese Magnus Wennman, insignito di numerosi premi di notevole prestigio, ha attuato attraverso una serie di foto sconvolgenti che dovrebbero essere mostrate quotidianamente per scuotere le nostre coscienze sopite preoccupate solamente di coltivare il nostro piccolo orticello.
Il fotografo ha voluto rivelare una realtà a cui i mass media dedicano poca attenzione. Si sprecano oceani di parole vuote che disumanizzano i cosiddetti immigrati inquadrati per pochi secondi per lasciar spazio al politico di turno che, a seconda del modo in cui vuole orientare l’elettorato, misura bene le parole e cerca di far leva sugli istinti più bassi dell’uomo.
Ad un delitto o un furto commesso da un immigrato viene riservato uno spazio ben più rilevante rispetto a quello in cui l’autore del reato è italiano. E la straziante realtà di un esodo già previsto da tempo viene trattata dai mass media in modo asettico o con interviste mirate all’obiettivo di far lamentare la gente di questa ondata immigratoria con i presunti rischi che ne conseguono, sebbene secondo l’Istat non si è riscontrato alcun aumento della criminalità dal ’90 fino ad oggi. Vengono spesso mandate in onda immagini di immigrati che comunicano sorridenti attraverso uno smartphone con lo scopo di mostrare che in fondo chi fugge da una guerra e non soffre in modo permanente non merita alcuna empatia. I mass media, tranne rari casi, ben si prodigano a celare la tragedia di popolazioni che affrontano qualsiasi viaggio, anche il più pericoloso, servendosi di un momento storico di grave crisi economica in cui non pochi sono i diritti a noi sottratti e preferiscono distrarre la gente mettendola in guardia da “pericolose invasioni di profughi che potrebbero sconvolgere la nostra tranquillità“. Non poche inoltre sono le notizie fasulle condivise nei vari social network in cui si lascia credere che questi immigrati dimorino in hotel a cinque stelle. 

Magnus Wennman fotografato da Johanna Syrèn.

Magnus Wennman fotografato da Johanna Syrèn.

Ma c’è qualcuno che in questo oceano di urla e parole vuote, svolge il suo compito di informazione con serietà.
Si tratta proprio del fotografo svedese sopracitato che, in modo silenzioso, sta tentando, attraverso scatti fotografici che colpiscono dritto al cuore, di umanizzare quasi quattro milioni di profughi costretti a fuggire dalla guerra e dalla fame e lo sta facendo ritraendo alcuni bambini durante il loro percorso lungo il confine serbo-ungherese, in un campo profughi ed in un ospedale.
In un’intervista rilasciata alla CNN, Wennman ha affermato che i conflitti in corso non sono facili da capire per la maggioranza della gente, «ma non è certamente di ardua comprensione la necessità e il diritto di ogni bambino di avere un posto sicuro dove poter dormire. Questo aspetto è sicuramente facile da comprendere».
Riguardo quei bambini costretti a vagare in attesa di essere accolti ha così commentato: «Hanno perso un po’ di speranza e non è facile che un bambino dimentichi di essere un bambino e cessi di divertirsi, persino in luoghi orribili».
La serie di foto pubblicate da Wennman, e di cui mi auguro una massiccia diffusione in tutto il mondo, recano un titolo che dovrebbe rimandare ad uno dei momenti più rassicuranti e confortevoli della nostra esistenza: “Dove dormono i bambini“.
Ma di quel momento magico in cui immaginiamo dei bambini che si adagiano serenamente su comodi guanciali non vi è alcuna traccia nei dolorosi scatti del fotografo che s’impegna anche a farci conoscere le storie dei piccoli immortalati costretti a lasciare la propria terra.
Sebbene è una realtà che molti di noi hanno già intuito da tempo, il vederla catturata dentro una foto rende inammissibile il nostro girare il viso da un’altra parte ed il fingere che vada tutto bene.

Lamar, cinque anni, Horgos, Serbia.

Lamar, cinque anni, Horgos, Serbia.

Lamar ha 5 anni e viene da Baghdad, dove una bomba le ha distrutto la casa. Non ha con sé alcun giocattolo; tutto è andato perduto a causa di quella bomba e non era più possibile continuare a vivere in Iraq, sostiene Sara, la nonna della bambina. Al secondo tentativo di attraversare il mare della Turchia con un gommone, riesce a giungere con la sua famiglia in Serbia, superando i confini ungheresi. Adesso Lamar dorme su una coperta nel bosco, impaurita, sconsolata e tremante.

Abdullah, cinque anni, Belgrado, Serbia.

Abdullah, cinque anni, Belgrado, Serbia.

Anche Abdullah ha cinque anni ed è siriano. Ha assistito all’uccisione della sorella nella casa in cui viveva insieme alla sua famiglia a Daraa. Il trauma subito lo perseguita incessantemente con incubi notturni. Per alcuni giorni ha dormito all’aperto vicino la stazione centrale di Belgrado. Afflitto da una malattia del sangue, non può essere curato perché la madre non ha i soldi necessari per acquistare le medicine di cui il figlio necessita. Il bambino è esausto e il dolore che tormenta il suo animo si legge nel suo sguardo smarrito. Spesso un’immagine colpisce più delle parole.

Ahmed, 6 anni, Horgos, Serbia.

Ahmed, 6 anni, Horgos, Serbia.

Ahmed è un bambino siriano di sei anni il cui padre è stato ucciso nella sua città natale, Deir ez-Zor. Trascorsa la mezzanotte il piccolo si assopisce in mezzo all’erba, mentre gli adulti cercano di studiare dei piani per poter lasciare l’Ungheria senza essere registrati dalle autorità. È uno zio ad essersi preso cura di Ahmed dopo la morte del padre e così racconta la reazione del bambino di fronte a tale tragedia: «È coraggioso e piange qualche volta solamente di sera».

Maram, 8 anni, Amman, Giordania.

Maram, 8 anni, Amman, Giordania.

Un razzo ha colpito la casa di Maram quando la piccola era appena tornata da scuola. Un pezzo di tetto la colpisce causandole un’emorragia cerebrale. Da un ospedale da campo in cui la madre la porta, viene trasportata in Giordania. Dopo undici giorni di coma, Maram riprende conoscenza, ma a causa della frattura di una mascella non può parlare.

Ralia (7 anni) e Rahaf (13 anni), Beirut, Libano.

Ralia (7 anni) e Rahaf (13 anni), Beirut, Libano.

Ralia e Rahaf, rispettivamente di sette e di tredici anni, sono fuggite da Damasco insieme al padre, dopo che una granata ha ucciso la madre e il fratello. Da circa un anno dormono per le strade di Beirut. Strette l’una all’altra accanto alle loro scatole di cartone, è il padre a far loro compagnia in quelle lunghe notti all’addiaccio. Quando Rahaf esprime il suo timore nei confronti dei “ragazzi cattivi“, Ralia scoppia in un pianto disperato.

Moyad, 5 anni, Amman, Giordania.

Moyad, 5 anni, Amman, Giordania.

Anche Moyad è un profugo siriano. Era andato insieme alla madre, mano nella mano, in un mercato di Dar’a a comprare della farina per preparare una torta di spinaci. Sfortunatamente madre e figlio passarono accanto ad un taxi in cui qualcuno aveva introdotto una bomba. L’esplosione causò la morte della donna. Il bambino venne trasportato in aereo in Giordania dove è ricoverato a causa di schegge in testa, sulla schiena e sul bacino.

Walaa, 5 anni, Dar-El-Ias, Giordania

Walaa, 5 anni, Dar-El-Ias, Libano

Walaa ha cinque anni e si trova nel campo profughi di Dar-El-Ias, in Libano. La sera non vuole andare a dormire, piange perché vorrebbe tornare nella sua camera, ad Aleppo. Piange ogni notte. Teme la notte perché proprio di notte vi furono i bombardamenti. Le costa fatica anche poggiare la testa sul cuscino. Troppi ricordi orribili la notte.
Durante il giorno la madre di Walaa le costruisce una casetta di cuscini per cercare di sconfiggere le paure della figlia. Cerca inutilmente di rassicurarla e di farle comprendere che ormai lei è al sicuro.

Ahmad, 7 anni, Horgos / Röszke (tra Ungheria e Serbia)

Ahmad, 7 anni, Horgos / Röszke (tra Serbia e Ungheria)

Nemmeno il sonno è una zona franca ed il terrore emerge con prepotenza. Ahmad e la sua famiglia avevano sempre convissuto con la guerra, ma una bomba ha colpito la loro casa a Idlib, in Siria. Il piccolo venne colpito alla testa, ma sopravvisse. Il fratello minore, invece, perse la vita. La casa in cui Ahamad viveva venne distrutta e, ormai senza dimora, furono costretti a lasciare la Siria. Adesso il piccolo Ahmad dorme sull’asfalto lungo la strada che conduce al confine ungherese. La foto è stata scattata giorno 16. Ahmad, insieme ad altre migliaia di profughi, spera che presto abbia fine quest’incubo. Il padre di Ahmad racconta che la sua famiglia ha dormito sotto le pensiline degli autobus, sulla strada e nei boschi.

Shiraz, 9 anni, Suruc, Turchia.

Shiraz, 9 anni, Suruc, Turchia.

Shiraz aveva appena tre mesi quando venne colpita da una febbre alta. La diagnosi del medico non lasciava scampo: poliomielite. Lo stesso medico consigliò ai genitori della bambina di non spendere molti soldi per curare la figlia perché non vi erano possibilità di guarigione.
Giunse poi la guerra ed ancora oggi alla madre di Shiraz, Leila, scendono le lacrime quando ricorda il momento in cui decise di avvolgere sua figlia in una coperta per portarla da Kobane alla Turchia.
Shiraz adesso ha nove anni. Nel campo profughi le è stato dato un lettino di legno. Non può parlare e trascorre giorno e notte dentro quel lettino.

Shehd, 7 anni

Shehd, 7 anni

Shehd ha sette anni. Aveva sempre amato disegnare, ma nell’ultimo periodo i suoi disegni ritraevano solamente armi. «Sembrava che le vedesse dappertutto e continuamente», racconta la madre. La piccola adesso dorme per terra vicino al confine chiuso dell’Ungheria. Non gioca e non disegna più. La fuga ha costretto i bambini a crescere troppo in fretta e a vivere in un perenne stato di angoscia condividendo le preoccupazioni degli adulti.
La famiglia racconta le difficoltà incontrate per procurarsi un po’ di cibo durante il loro peregrinare. Per alcuni giorni si è cibata solamente delle mele degli alberi incontrati lungo la strada. Se avessero saputo a quali difficoltà sarebbero andati incontro per sfuggire alla guerra, avrebbero preferito rimanere in Siria. Pur rischiando la vita.

Amir, 20 mesi, Zahle Fayda, Libano

Amir, 20 mesi, Zahle Fayda, Libano

Amir, 20 mesi, è nato da una famiglia di profughi. La madre, Shahana, di trentadue anni, ritiene che il figlio abbia subito dei traumi già dentro il grembo: «Non ha mai pronunciato una sola parola». Nella tenda di plastica dove adesso la famiglia vive, Amir non possiede giocattoli, ma gioca con tutto quello che riesce a trovare per terra. «Ride molto, anche se non parla», aggiunge la madre.

Fara, 2 anni, Azraq, Giordania.

Fara, 2 anni, Azraq, Giordania.

Fara ha due anni e ama il calcio. Il padre cerca di costruire delle palle accartocciando qualsiasi cosa riesca a trovare, ma non durano a lungo. Ogni sera augura la buona notte a Fara e alla sorellina Tisam, di 9 anni, nella speranza che il giorno dopo potrà donare loro una vera e propria palla con cui giocare. Difficile in questo momento lasciarsi andare ad altri sogni. Eppure cerca di trovare la forza di non soccombere al destino.

Juliana, 2 anni, Horgos, Serbia.

Juliana, 2 anni, Horgos, Serbia.

Vi sono 34 gradi di temperatura quando viene eseguito questo scatto. Le mosche si poggiano sul viso della piccola Juliana che cerca di allontanarle con difficoltà mentre prova a dormire. Da due giorni la sua famiglia percorre la Serbia. Dopo tre mesi dalla fuga finalmente è riuscita a raggiungere il luogo in cui spera di essere accolta. La madre di Juliana ha poggiato il suo leggero scialle sopra la figlia che giace a terra. Poco vicino al luogo in cui si sono fermati a riposare c’è un’enorme folla. Siamo a fine agosto e l’Ungheria sta per chiudere le frontiere con il filo spinato per impedire ai profughi di entrare. Ancora qualche giorno ed il lavoro sarà concluso. Poco tempo rimasto per poter attraversare la città di confine di Horgos. Di sera la famiglia di Juliana riuscirà a varcare la frontiera.

vittime 20Foto agghiaccianti che mostrano un’umanità smarrita incapace di difendere persino i bambini, vittime di guerre di cui non comprendono nemmeno il significato.
E noi, dove siamo? Perché non interveniamo per alleviare la sofferenza a queste persone? Abbiamo anche contribuito con la nostra indifferenza a far precipitare nell’oblio quella famosa “Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia” che impegna i paesi membri da un punto di vista morale a far sì che venga rispettata.
Un impegno morale quotidianamente ignorato.
Barriere innalzate e urla farneticanti di gente che non vuole più immigrati “tra i piedi“. Dopo i terribili attentati che hanno sconvolto Parigi, ho letto e sentito affermazioni deliranti nei confronti di persone che hanno perso tutto e hanno il sacrosanto diritto di essere accolti. Adesso va di moda equiparare un immigrato qualsiasi ad un terrorista.
Sembra che ancora oggi la poesia del grande Primo Levi da molti citata solo durante la “Giornata della Memoria” abbia perso alcun significato.
Abbiamo smarrito la nostra umanità? Mi auguro che ciò non sia accaduto e invito quanti possano effettuare una donazione a cliccare qui ed effettuare un versamento affinché l’inverno di queste famiglie sia lieve, anche se lontani dalla terra in cui sono nati. Un piccolo versamento può riscaldare chi non ha la stessa nostra fortuna di rinchiudersi in “tiepide case“.
Vi prego di rileggere il componimento di Primo Levi, “Se questo è un uomo“. Sebbene sia stato scritto per ricordare l’atroce sterminio degli ebrei, in un mondo in cui ancora predominano egoismo e indifferenza, è tristemente attuale e induce a fermarsi a riflettere sulle tragedie in corso. In fondo si tratta di una poesia che lancia un messaggio eterno diretto a tutti coloro talmente presuntuosi da ritenersi con la coscienza tranquilla e che esistono (questo è il termine più appropriato) senza mai scaldarsi più di tanto o prendere posizione di fronte ad un’ingiustizia; tiepidi come le loro case e le loro relazioni con il mondo.

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfascia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

Dopo aver visto queste foto, ritenete ancora che la storia dell’uomo sia cambiata?

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