Noto in tutto il mondo per il suo capolavoro “La lettera scarlatta“, Nathaniel Hawthorne, contemporaneo di Melville e Poe, ha apportato un notevole contributo alla letteratura statunitense grazie ad un’indagine di sorprendente profondità con cui penetra “l’umana fragilità e sofferenza” esplorata negli anfratti più oscuri e negli inconfessabili segreti che il cuore è costretto a custodire fino al momento in cui la realtà sarà rilevata. La società ipocrita e puritana del New England fa da sfondo alla maggioranza della sua produzione letteraria la cui straordinaria penetrazione psicologica dell’itinerario interiore dei suoi personaggi può trovare, forse, un valido termine di paragone in Dostoevskij.
Scrittore malinconico e introspettivo, spesso incompreso per i toni gotici e le allegorie criptiche, riesce a ben delineare l’atmosfera asfittica del soffocante puritanesimo e l’eterna lotta dell’animo umano che si dibatte tra l’agognata libertà e la subordinazione all’autorità. Le sue opere appaiono come delle matasse da districare per coglierne i più reconditi e simbolici significati.
Trascorre la maggioranza della sua esistenza nel tentativo di riscattarsi dal passato oscuro della sua famiglia che annoverava tra i suoi antenati un giudice la cui posizione si determinò decisiva nel processo contro “le streghe di Salem”.
Tale processo, iniziato nel 1692, diede il via ad una serie di cruente persecuzioni, torture e uccisioni di persone accusate di stregoneria.
La caccia alle streghe ebbe inizio proprio nella comunità di Salem, dove nasce Hawthorne, e si estese in pochissimo tempo negli altri paesini limitrofi.
In quel villaggio si verificò una delle più grandi esplosioni di isteria collettiva a causa di due ragazzine urlanti che si pensava fossero state “stregate” da alcune donne del luogo.
Gli inquisitori, tra cui John Hathorne, antenato dello scrittore, convinti che il demonio s’incarnasse nel corpo dei malvagi per arrecare danno ai buoni, impiccarono diciannove innocenti e torturarono centinaia di donne con l’accusa di falsa testimonianza.
Un capitolo orribile nella storia degli Stati Uniti, ancora oggi ricordato attraverso film e libri. Nella mente dello scrittore la sola idea che uno dei suoi antenati si fosse reso complice di un simile massacro lo tormenterà per tutta la vita, al punto di far aggiungere la W nel suo cognome per prendere le distanze da quel suo parente.
Nato il 4 luglio del 1804, Nathaniel Hawthorne, proviene da un’antica famiglia puritana di quel villaggio del Massachusetts.
Perso il padre in tenera età e colpito da una malattia che lo tiene a lungo separato dai giochi dei coetanei, cresce con la madre dedicando la maggioranza del suo tempo a leggere. Uscirà dalla casa materna solo per compiere gli studi al Bowdoin College nel Maine.
Conseguita la laurea nel 1825, decide di tornare a Salem e resta appartato per molti anni dedicandosi a scrivere brevi racconti ambientati nei giorni coloniali della puritana New England.
Degno di nota il suo racconto “Il velo nero del pastore“, scritto durante quegli anni che lui definirà «di non vita, ma di sogno di vita» dentro “il nido di gufo“, ovvero la casa della sua famiglia, e successivamente inserito nella sua raccolta “Racconti narrati due volte” del 1837.
Nel suddetto racconto si narra la storia del un pastore puritano, Hooper,che compare una domenica con il volto coperto da un velo di crespo nero.
La congregazione è visibilmente terrorizzata da quell’insolito comportamento, nonostante non appaia alcun cambiamento al sermone domenicale. Molti fedeli lasciano la chiesa visibilmente turbati. Solo Elizabeth, una ragazza che gli vuole molto bene non mostra alcun timore nei confronti di quel velo e gli chiede di scostarlo.
Ma Hooper non le risponde e non scosta il velo. La decisione di portare quella maschera tutta la vita lo condurrà alla solitudine. E prima della sua morte, il pastore pronuncia solo poche parole : «Ognuno ha un segreto peccato che nasconde a tutti…» e pone il divieto di togliergli il velo.
Cosa vuole simboleggiare quel velo? Molte sono state le interpretazioni riguardo questo racconto: desiderio di isolarsi dal mondo, delitto mai rivelato, o più semplicemente per Hawthorne quel velo simboleggia la maschera del dolore nascosta in ogni essere umano e che impedisce a se stesso e agli altri di mostrare veramente quello che è? Io credo voglia rappresentare tutto ciò che è nascosto dentro il nostro cuore e che resterà seppellito forse insieme a noi.
In quei lunghi anni di vita solitaria, Hawthorne prende in considerazione l’idea di lasciare il suo paese per liberarsi dai fantasmi del passato familiari ingigantiti dalla sua fervida immaginazione, ma finisce per adattarsi accettando il monotono e grigio impiego presso la dogana di Boston, dal 1839 al 1841.
Nel 1841 avviene l’incontro più importante della sua vita; conosce infatti l’illustratrice trascendentalista Sophia Amelia Peabody che sposerà l’anno dopo e che amerà appassionatamente fino all’ultimo giorno della sua vita.
Trascorre quattro anni alla Brook Farm, una piccola colonia del movimento filosofico e poetico del trascendentalimo che analizza l’essere umano nelle sue relazioni con la natura e la società. Lascerà poco dopo il movimento, volgendo maggiormente la sua attenzione ai rapporti tra l’uomo e la società.
L’ottimismo dei trascendentisti è piuttosto lontano dalla sua visione pessimistica e dal suo perenne interesse verso l’antico concetto puritano del peccato. L’esperienza nella comunità della Brook Farm gli ispirerà l’ironico “Il romanzo di Valgioiosa” (1852).
Secondo lo scrittore, la fede assoluta nella ragione e nella natura gli appare insensata perché limita la complessità dell’animo umano, con le sue zone di luce, ma anche di ombre. Quei lati oscuri di cui nessun essere umano sembra esserne esente. Per trovare la verità è necessario indagare su quell’eredità che gli antichi puritani hanno lasciato e interpretarne la loro cultura introspettiva in senso laico.
Torna a lavorare per altri tre anni alla dogana di Boston e viene nominato console degli Stati Uniti a Liverpool, grazie al presidente Franklin Pierce, suo vecchio compagno di studi. Rimane a lungo in Europa e viaggia molto visitando anche l’Italia che gli ispirerà il romanzo “Il fauno di marmo” (1860).
Dopo aver scritto la collezione di racconti, “Muschi di una vecchia parrocchia“, pubblicata nel 1846, sembra che lo scrittore abbia accantonato l’interesse storico per dedicarsi completamente al genere fantastico.
Tuttavia si tratta solo di una piccola pausa perché, come scriverà nell’introduzione al suo più famoso romanzo, “La lettera scarlatta“, «il passato non era morto».
Quel passato che si agita sempre dentro di sé è racchiuso in quel mai sopito rimorso per le azioni commesse dai propri antenati che direttamente e indirettamente si macchiarono di colpe imperdonabili. Alle sfortunate vittime di tanta crudeltà, Hawthorne dedica un romanzo che rappresenta il suo biglietto d’ingresso nella storia della letteratura mondiale.
Pubblicato nel 1850, il romanzo è considerato uno dei capolavori della letteratura statunitense.
La lettera scarlatta non è altro che una grande «A», ricamata sul petto delle donne che commettevano il peccato di adulterio nella New England del 1600.
Pratica molto diffusa nel suddetto periodo storico, viene posta sul vestito della protagonista del romanzo, Hester Prynne.
L’adultera cui è stato inflitta la condanna di portare sul petto il simbolo infamante del suo peccato, nonostante l’umiliazione subita, trova il coraggio di esibire quel marchio d’infamia con orgoglio. Non rivelerà il nome di chi ha commesso quel peccato insieme a lei e con forza decide di vivere senza l’aiuto di nessuno. Irrompe così nella letteratura un’adultera molto differente dalla famosa Madame Bovary di Gustave Flaubert.
L’anziano marito della donna era stato mandato per due anni a Boston e al suo ritorno trova la moglie messa alla gogna con una scarlatta “A” sul petto e una neonata tra le braccia.
Poichè Hester non ha nessuna intenzione di render noto il nome del padre della bambina, l’uomo, deciso a tutti i costi di far luce su tale evento, assume il falso nome di Roger Chillingworth e dedica tutte le sue energie per scovare colui che ha ingravidato la moglie.
Dopo numerose indagini scopre con enorme stupore che il padre della bambina, chiamata Pearl, è il giovane reverendo Arthur Dimmesdale, apparentemente un integerrimo ministro che non trova la forza di uscire allo scoperto.
Il romanzo, nonostante sia ambientato in un’epoca storica molto lontana da noi, si può considerare ancora attuale perché riesce a mettere in luce la fragilità e la sofferenza dell’uomo che trovano una collocazione storica in qualsiasi periodo, così come la grandezza di certi esseri umani che traggono arricchimento dalla sofferenza come succede alla protagonista.
Hester si libera dall’oscurità della normalità puritana e non potrà più appartenervi. Ma il suo smisurato amore per gli altri non cesserà mai di far parte del suo essere e nessuna punizione e ostracismo riusciranno a sconvolgere la sua forza e la sua capacità di amare.
A dispetto di tutto, a dispetto di un mondo soffocato dalla superstizione e dal bigottismo.
E mentre i due personaggi maschili annaspano goffamente nella loro viltà o irrazionale sete di vendetta, Hester riesce ad andare oltre lo squallore di quella massa di grigi e ottusi puritani. Il narratore del romanzo confessa, dopo aver toccato quella lettera rinvenuta, di aver sentito «un calore bruciante…come se la lettera non fosse di panno scarlatto, ma di ferro arroventato fino a diventare rosso.»
La debolezza fa commettere un errore a Hester, ma il dolore dell’isolamento, a causa del marchio che è costretta a portare, le consente di far luce sull’ipocrisia della società che la circonda e a liberarsi così di tutto ciò che di squallido, di effimero e di meschino esiste nelle relazioni umane. Quella lettera la isola dal mondo e funge anche da riparo per la protagonista del romanzo. Quella dura prova che irrompe nella sua vita le permette di giungere alla consapevolezza del vero sé che resterà serbato nel suo cuore e che non rivelerà nemmeno ai suoi giudici, interessati solamente alla condanna della donna.
Non solo la sofferenza solitaria è uno dei temi del capolavoro di Hawthorne, ma anche ben altre sono le tematiche esistenziali affrontate in questo straordinario romanzo che pone l’eterno interrogativo dello stretto legame tra dolore e grandezza.
Maestro ineguagliabile di introspezione psicologica, Hawthorne riesce a caratterizzare ogni suo personaggio seguendone il doloroso tormento. E nel descrivere gli eventi del romanzo si colloca in «un territorio neutrale, a metà strada tra il mondo vero e il regno delle fate, in cui il Reale e l’Immaginario possono incontrarsi e mescolarsi».
Dopo il grande successo del romanzo, Hawthorne scrive nel 1851 il romanzo gotico “La casa dei sette abbaini” e alcuni libri dedicati ai bambini.
Il passare del tempo lo convince sempre di più dell’impossibilità che il cosiddetto”sogno americano” possa veramente attuarsi e teme che con i suoi insormontabili problemi, più volte denunciati nei suoi scritti, potrebbe trasformarsi in un incubo.
Contraddizioni sociali, pellerossa, subordinazione della donna e schiavitù, lo portano ad acuire il suo pessimismo sulla natura umana e con il sogno infranto di un’America veramente unita e libera, che culmina con l’incubo della guerra di Secessione, si spegne il 19 maggio 1864 una delle menti più creative dell’Ottocento.
Invito a rileggere le sue grandi opere ed alcuni dei suoi più significativi pensieri raccolti.
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La nostra salute morale e intellettuale ritrae un gran giovamento quando ci troviamo obbligati a mescolarci con individui del tutto diversi, che non condividono le nostre aspirazioni e posseggono interessi e abilità, che dobbiam fare uno sforzo per poter apprezzare.
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Noi spesso ci rallegriamo con noi stessi al momento del risveglio da un sogno agitato: potrebbe essere lo stesso nel momento successivo alla morte.
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Nessun uomo può, per un tempo considerevole, portare una faccia per sé e un’altra per la moltitudine, senza infine confonderle e non sapere più quale delle due sia la vera.
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Il pubblico è dispotico nelle sue reazioni; è capace di negare la più ovvia giustizia, quando gli sia richiesta con troppa insistenza; ma molto spesso concede più del giusto, quando la richiesta venga indirizzata, siccome ai despoti piace, interamente alla sua generosità.
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Per l’uomo falso, tutto l’universo non è vero, e quando cerchi di afferrarlo stringi un pugno di mosche: è impalpabile. E lui stesso, fino a quando si mostrerà sotto una luce falsa, sarà un’ombra, una cosa che non esiste più.
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È sempre così: un male fatto, simboleggiato da qualcosa o no, diventa una maledizione.
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Nella nostra natura c’è però una meravigliosa, e caritatevole, valvola di sicurezza per cui chi soffre non si rende mai conto con piena intensità di ciò che sta soffrendo nel momento stesso della tortura, ma solo dopo, quando lo raggiunge la fitta del ricordo.
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La spiritosaggine dei vecchi ha in apparenza molto da spartire con la festevolezza dei bambini: l’intelletto non c’entra, non più di quanto c’entri un profondo senso dell’umorismo; in entrambi, si tratta di un luccichio che guizza scherzoso in superficie e dà un aspetto solare e gaio sia ai rimani verdi che ai tronchi grigi carichi i muffe. Però nel primo caso è veramente sola, nell’altro assomiglia di più a quei fuochi fatui generati dal legno che marcisce.
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Le carezze, le espressioni di amore, sono necessarie alla vita affettiva come le foglie alla vita di un albero. Se sono interamente trattenuti, l’amore morirà alle radici.
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Il marmo conserva solo un freddo e triste ricordo di un uomo che sarebbe altrimenti dimenticato. Nessun uomo che ha bisogno di un monumento dovrebbe mai averne uno.
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Caratteristica della maggior parte degli uomini è di diventar feroci soltanto perché è in loro potestà fare del male.
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Dai princìpi si deduce una probabilità, ma il vero o una certezza si ottengono solo dai fatti.
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