Regista britannico anticapitalista e dichiaratamente socialista, Ken Loach è da ritenersi la voce fuori dal coro del cinema contemporaneo. I suoi film graffianti rappresentano con coraggio e determinazione le condizioni difficili di vita delle persone svantaggiate e oppresse.
Pochi registi sono stati così coerenti nelle tematiche e nello stile cinematografico come Ken Loach, considerato il più importante regista politico europeo. La sua accanita difesa nei confronti degli ultimi nella gerarchia sociale, lo ha reso un personaggio scomodo nel cinema internazionale, soprattutto agli inizi della sua carriera, sorta dall’esigenza di raccontare quel mondo, spesso sconosciuto, dalla società occidentale benestante.
Insignito di numerosi premi prestigiosi, con il passare degli anni i suoi film hanno mostrato l’accentuarsi del suo pessimismo e un doloroso senso di sconfitta nell’avvertire la difficoltà di un reale cambiamento nel mondo.
D’altronde non gli si può dar torto; basta guardarsi intorno per notare una decadenza morale senza precedenti ed una crescita esponenziale delle contraddizioni sociali. Ma, se nel suo terzultimo film, “Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà“, aveva preferito volgere il suo sguardo indietro per dimenticare la mancanza di sussulti di dignità in una società sempre più piatta e omologata, alla consegna del premio per il suo penultimo film, “I, Daniel Blake” ha voluto lanciare al mondo un messaggio di speranza.
Nato il 17 giugno del 1936 da una famiglia operaia, da bambino deve trasferirsi continuamente a causa della guerra. Studia giurisprudenza ad Oxford e comincia ad appassionarsi al teatro, diventando in breve tempo presidente di una compagnia teatrale universitaria.
Si sposa nel 1962 con Lesley Ashton, sua attuale moglie, che gli darà cinque figli. La sua vita sarà segnata dalla perdita di uno di essi, deceduto in seguito ad un incidente stradale.
Disinteressato alla professione di avvocato, inizia la sua carriera di regista cominciando dal piccolo schermo e collaborando con la BBC per cui dirige, nel 1964, tre episodi di una popolare serie poliziesca.
La sua prima esperienza cinematografica avviene tre anni dopo con la realizzazione di dieci documentari che illustrano il degrado sociale in cui vivono molti londinesi afflitti da problemi di alcolismo, mancanza di occupazione e conseguente emarginazione. Ken Loach inaugura con quegli episodi un nuovo genere documentaristico denominato docu-drama, ovvero la ricostruzione di argomenti di scottante attualità recitata da attori non professionisti, che unisce i differenti linguaggi del reportage e della finzione.
Quella serie di episodi tratti dalla vita reale, realizzati insieme al produttore socialista Tony Garnett, ottengono l’effetto desiderato da Loach, che attribuisce all’arte la funzione di scuotere la coscienza del pubblico. Gli spettatori britannici, infatti, indignati nell’apprendere la condizione miserevole in cui versa una parte della popolazione, chiedono che venga varata una legge sui senzatetto.
Il suo debutto nel mondo del grande schermo avviene nel 1967 con la realizzazione di “Poor Cow“, seguiti da “Kes “(1969) e “Family Life“ (1971). Tre film in cui si denota l’impegno sociale del regista che descrive con efficace realismo e con un linguaggio duro ed essenziale la condizione odierna degli esseri umani, intrappolati in una società alienante e borghese.
Emerge sin dall’inizio la vena poetica del regista nel narrare la crudeltà della società contemporanea, soprattutto nel film “Kes“, emblema del cinema indipendente britannico. “Kes” racconta la storia un ragazzino introverso e sensibile dello Yorkshire, che osserva il mondo intorno a sé con disincanto e sfugge da quell’opprimente realtà affezionandosi ad un piccolo falco.
I tre film realizzati da Ken Loach cominciano a destare l’attenzione della critica, positivamente colpita dal linguaggio realista e profondamente innovativo del regista che focalizza l’attenzione su temi scottanti di attualità. E quei temi ricorrenti dell’alienazione, dell’alcolismo e delle contraddizioni sociali, affrontati nelle prime pellicole di Loach proseguiranno senza sosta con analisi spietate contro la società capitalista che, secondo il suo punto di vista, disumanizza la vera essenza dell’uomo.
Ho scoperto questo grande regista inglese nel 1991 con “Riff Raff – Meglio perderli che trovarli” e da quel momento non ho più smesso di vedere tutti i suoi meravigliosi e toccanti film di denuncia, interpretati spesso da attori superbi, ma sconosciuti.
Inoltre, leggendo la sua biografia, sono andata a ritroso cercando di trovare i suoi vecchi film, disponibili solo in lingua originale a causa di una pessima distribuzione degli stessi. Alcuni addirittura sono impossibili da trovare, almeno qui in Italia. Ed è molto strano riscontrare una simile chiusura nei confronti di un regista che ha vinto numerosi premi per il suo cinema anticonvenzionale e libero.
“Riff Raff – Meglio perderli che trovarli” vince il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes.
I “Riff- Raff ” (letteralmente “robaccia”) sono quei lavoratori messi in ginocchio dalla politica liberista di Margaret Thatcher. Solo pochi di essi si ribellano per cercare di riappropriarsi di quella dignità umana calpestata da nuove normative che minano i loro diritti. Ma il fallimento delle loro azioni di protesta, schiacciate ormai dal sopravvento della classe borghese-capitalista, li porta alla rassegnazione o all’autodistruzione. Uno dei protagonisti, avvilito dalla morte di un collega, causata dalla mancanza di sicurezza del cantiere in cui lavora, e dall’indifferenza degli altri lavoratori, timorosi di perdere il posto e privi di consapevolezza dei loro diritti, dà fuoco al cantiere e si allontana sorridendo.
Un gesto debole, dettato solo dalla rabbia del momento, in un mondo di nuovi schiavi che sfogano le loro frustrazioni sui più deboli e appaiono disinteressati a rivendicare i loro diritti.
Questo è uno dei film più emblematici di Ken Loach, oggi più di ieri potentemente attuale in un mondo in cui si muore ancora sul lavoro, si sottraggono diritti e si parla solo di flessibilità, libero mercato e privatizzazione.
“Riff Raff” vince anche il premio come Miglior Film Europeo nel 1992. Da quel momento il nome di Ken Loach diventerà noto in tutto il mondo e altri saranno i premi assegnati al regista inglese. Tra questi bisogna ricordare il Premio Speciale della Giuria a Cannes per “Piovono pietre“ (1993), il Leone d’oro alla carriera nel 1994, la Palma d’Oro al Festival di Cannes per “Il vento che accarezza l’erba” (2006) e il terzo Premio della Giuria, ancora al Festival di Cannes con “La parte degli angeli” (2012).
In tutti i suoi film è chiaramente espressa la sua critica verso un mondo che assiste al trionfo di quel liberismo oppressivo nei confronti di immigrati, disoccupati e “invisibili” che consumano la loro esistenza silenziosamente ai margini della società. Personaggi che cercano un riscatto in una società ostile e indifferente, spesso solidarizzando e mostrando, con la loro rettitudine morale, un mondo diverso da quello che vediamo.
Un regista indipendente, che con film cult come “Ladybird Ladybird“, (1994), “Terra e libertà” (1995), “La canzone di Carla,(1996) “Bread and Roses“ (2000) e “In questo mondo libero” (2007), solo per citarne qualcuno della sua vasta filmografia, s’immerge nell’esistenza dei suoi personaggi con empatia e onestà intellettuale.
Poco stimato nel Regno Unito per aver messo in luce la sofferenza del popolo irlandese e i difetti del suo paese, è uno dei registi più apprezzati nel mondo. Penso che di registi così liberi ogni paese ne avrebbe un disperato bisogno.
Da non dimenticare il suo rifiuto al premio conferitogli dal Torino Film Festival il 21 novembre del 2012 con la seguente motivazione:
« È con grande dispiacere che mi trovo costretto a rifiutare il premio che mi è stato assegnato dal Torino Film Festival, un premio che sarei stato onorato di ricevere, per me e per tutti coloro che hanno lavorato ai nostri film. I festival hanno l’importante funzione di promuovere la cinematografia europea e mondiale e Torino ha un’eccellente reputazione, avendo contribuito in modo evidente a stimolare l’amore e la passione per il cinema.
Tuttavia, c’è un grave problema, ossia la questione dell’esternalizzazione dei servizi che vengono svolti dai lavoratori con i salari più bassi. Come sempre, il motivo è il risparmio di denaro e la ditta che ottiene l’appalto riduce di conseguenza i salari e taglia il personale. È una ricetta destinata ad alimentare i conflitti. Il fatto che ciò avvenga in tutta Europa non rende questa pratica accettabile.
A Torino sono stati esternalizzati alla Cooperativa Rear i servizi di pulizia e sicurezza del Museo Nazionale del Cinema (MNC). Dopo un taglio degli stipendi i lavoratori hanno denunciato intimidazioni e maltrattamenti. Diverse persone sono state licenziate. I lavoratori più malpagati, quelli più vulnerabili, hanno quindi perso il posto di lavoro per essersi opposti a un taglio salariale. Ovviamente è difficile per noi districarci tra i dettagli di una disputa che si svolge in un altro paese, con pratiche lavorative diverse dalle nostre, ma ciò non significa che i principi non siano chiari. In questa situazione, l’organizzazione che appalta i servizi non può chiudere gli occhi, ma deve assumersi la responsabilità delle persone che lavorano per lei, anche se queste sono impiegate da una ditta esterna. Mi aspetterei che il Museo, in questo caso, dialogasse con i lavoratori e i loro sindacati, garantisse la riassunzione dei lavoratori licenziati e ripensasse la propria politica di esternalizzazione. Non è giusto che i più poveri debbano pagare il prezzo di una crisi economica di cui non sono responsabili.Abbiamo realizzato un film dedicato proprio a questo argomento, «Bread and Roses». Come potrei non rispondere a una richiesta di solidarietà da parte di lavoratori che sono stati licenziati per essersi battuti per i propri diritti? Accettare il premio e limitarmi a qualche commento critico sarebbe un comportamento debole e ipocrita. Non possiamo dire una cosa sullo schermo e poi tradirla con le nostre azioni.
Per questo motivo, seppure con grande tristezza, mi trovo costretto a rifiutare il premio.»
Il 22 maggio del 2016 gli è stata assegnata la Palma d’oro al 69° Festival di Cannes per il suo film “I, Daniel Blake“, ancora una volta messaggero della drammatica realtà in cui vivono gli ultimi di questo pianeta.
Alla consegna del premio, davanti ad un pubblico commosso, ha donato un augurio a noi e a se stesso: «un altro mondo è possibile e necessario.»
Merita di esser visto anche “Sorry, We Missed You” (2019), in cui affronta il dramma del precariato in una famiglia del Newcastle. Commovente, straziante e realista, la pellicola colpisce per la sua autenticità. Ancora una volta è sotto accusa il sistema neoliberista e l’impatto devastante che ha sugli esseri umani.
“Sorry we missed you” è un dramma familiare di forte impatto emotivo e, in un mondo di nuovi e invisibili schiavi che lottano per la sopravvivenza e che non vogliono perdere la propria dignità vivendo di sussidi statali, brilla la bellissima famiglia del protagonista che non si spezza nonostante le avversità e i numerosi problemi da affrontare quotidianamente.
Stretti da un nodo alla gola, dopo la visione di questo film, duro, ma pervaso da una dolce speranza, ci si sente molto vicini a quell’umanità dolente che non sempre riusciamo a vedere, schiacciati dalla fretta e da una società sempre più arida.
Il suo ultimo film, “The Old Oak“, presentato al festival di Cannes del 2023, non è stato ancora distribuito in Italia.
Il centro sinistra non esiste. Puoi essere a favore del mercato e della deregulation e allora sei a destra, oppure essere favorevoli ad un’economia pianificata e alla proprietà comune e allora sei a sinistra. Bisognerebbe dire a certi politici che quando uno sta al centro della strada di solito viene investito.
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La destra è come un morbo contagioso. Molte nazioni europee tendono a seguirsi e passarsi la malattia l’una con l’altra.
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Visto che siamo tornati ai problemi di sfruttamento dei lavoratori delle origini è importante che i sindacati tornino ad occuparsi di quello per cui sono nati.
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Un cineasta deve assolutamente mostrare i fatti e mettere il dito su ciò che non va.
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Rifiuto ragionato di accettare l’inaccettabile.
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Il dovere di un regista è dare importanza all’anima dello spettatore.
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Il razzismo ha una funzione nella nostra società. Fa in modo di impedirci di identificare il nostro vero nemico. La responsabilità del problema dei senza tetto, della povertà e dello sfruttamento non è delle persone più povere e sfruttate. Farli diventare il capro espiatorio, perché sono neri o marroni o perché vengono da una cultura diversa, lascia i veri sfruttatori liberi di agire. Una classe di lavoratori divisa dal razzismo è perfetta per gli imprenditori. Essi traggono beneficio dal lavoro a basso costo, mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri. Qualunque sia la loro retorica, i fascisti che si servono del razzismo parlano nell’interesse del capitale. Dobbiamo ricordare che l’offesa fatta a uno, di qualunque razza egli o ella sia, è un’offesa fatta a tutti.
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Se magari dicessimo la verità riguardo al passato, potremmo essere onesti con il presente.
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