Cesare Pavese: Solitudine e Mito

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Influente scrittore, poeta e traduttore italiano, Cesare Pavese è una delle figure più rilevanti della letteratura italiana del Novecento.
La sua vita tormentata e la sua opera letteraria riflettono una profonda sensibilità ed una capacità unica di esplorare le contraddizioni e le complessità dell’esistenza umana. Attraverso i suoi romanzi, poesie e scritti filosofici, Pavese ha lasciato un’impronta indelebile nella letteratura italiana, donando una visione intensa e malinconica della vita, dell’amore e della morte. La sua opera continua a essere studiata e apprezzata per la sua profondità psicologica, la sua originalità stilistica e la sua abilità di parlare a lettori di diverse generazioni.
La sua scrittura è caratterizzata da una profonda inquietudine esistenziale e una notevole meditazione filosofica.  La sua prosa è lineare, essenziale e spesso frammentaria, ma non per questo meno potente. La scelta delle parole è scrupolosa e ponderata, volta a catturare le emozioni e le sfumature psicologiche dei personaggi e delle situazioni con precisione. Questa semplicità stilistica non è mai banale, ma al contrario, è il risultato di una raffinata ricerca linguistica e di una penetrante attenzione alla realtà. La sua capacità di fondere l’esperienza personale con temi universali rende il suo lavoro senza tempo. Molte delle sue opere riflettono le sue lotte personali, tra cui l’esperienza drammatica vissuta durante il regime fascista, la prigionia e la sua incessante battaglia contro la depressione. È importante sottolineare il suo ruolo nell’introdurre i giganti della letteratura americana ai lettori italiani. Le sue traduzioni di Herman Melville, William Faulkner, Ernest Hemingway e John Steinbeck hanno contribuito a plasmare il panorama letterario italiano, fondendo culture e stili letterari diversi. Pavese, infatti, è un profondo ammiratore della capacità degli autori americani di rappresentare la realtà in modo diretto e realistico, senza fronzoli. Questo si riflette nella sua prosa asciutta, nella struttura narrativa lineare e nella focalizzazione su dettagli concreti e quotidiani.

Il dialogo gioca un ruolo fondamentale nella narrativa di Pavese. Spesso è attraverso le conversazioni tra i personaggi che emergono i temi principali delle sue opere e che si sviluppano le trame. I suoi dialoghi sono realistici, spontanei, e talvolta spezzati o incompleti, riflettendo la difficoltà dei personaggi nel comunicare i propri pensieri e sentimenti. L’incomunicabilità tra gli esseri umani è una delle tematiche fondamentali che caratterizza la sua produzione letteraria. Questa tecnica contribuisce a creare un senso di immedesimazione nel lettore, che viene immerso nelle dinamiche interpersonali e nelle tensioni emotive dei personaggi.
La descrizione del paesaggio è un altro elemento fondamentale nello stile di Pavese. Le sue opere sono spesso ambientate nelle campagne piemontesi delle Langhe, descritte con un’attenzione quasi cinematografica ai dettagli e alle atmosfere. Utilizza il paesaggio non solo come sfondo, ma come riflesso dello stato d’animo dei personaggi e delle loro esperienze interiori. La natura diventa così una metafora della condizione umana, rappresentando spesso l’inquietudine, la solitudine e la ricerca di identità dei protagonisti.


Sebbene Pavese adotti uno stile realistico, la sua narrativa è anche ricca di simbolismo e riferimenti mitologici. I miti greci, in particolare, svolgono un ruolo importante nelle sue opere, fungendo da metafore per esplorare temi universali come la morte, l’amore, il fato e la memoria. Nei “Dialoghi con Leucò“, Pavese utilizza i miti per riflettere sulla condizione umana e per dare voce ad una visione tragica e fatalistica della vita. Anche nei suoi romanzi e racconti, il mito emerge spesso come un elemento che conferisce profondità e significato alle vicende quotidiane dei personaggi.


Il suo stile è profondamente influenzato dalla sua riflessione esistenziale e dalla sua indagine psicologica. La sua scrittura esplora le dimensioni più intime e complesse della psiche umana, affrontando temi come l’alienazione, la solitudine, la disperazione e il desiderio di redenzione. Pavese è abile nel ritrarre i conflitti interiori dei suoi personaggi, usando uno stile introspettivo e meditativo che permette al lettore di entrare in contatto con le sue emozioni e le sue paure più profonde.


Pavese sovente gioca con la dimensione temporale nelle sue opere, utilizzando la memoria come strumento narrativo. Nei suoi racconti e romanzi, il passato non è solo un ricordo, ma una presenza costante che influisce sul presente e sul futuro dei personaggi. La memoria diventa un mezzo per esplorare l’identità e per riflettere sui traumi e sulle esperienze che definiscono la vita. Questo uso del tempo e della memoria conferisce alla sua scrittura una qualità onirica e malinconica, che è una delle sue caratteristiche distintive.


Nato il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese nelle Langhe, in provincia di Cuneo, figlio di Eugenio, un funzionario di tribunale, e di Fiorentina Consolino, proveniente da una famiglia benestante, Cesare Pavese trascorre un’infanzia segnata da profondi traumi. La morte prematura del padre, nel 1914, lascia infatti un segno indelebile nella sua sensibilità, contribuendo a sviluppare in lui una precoce riflessione sulla solitudine e sulla morte. Dopo la dipartita del padre, la famiglia si trasferisce a Torino, dove Pavese frequenta il liceo D’Azeglio prima di iscriversi all’Università. Proprio durante quel periodo il futuro poeta e scrittore rivolge le sue letture a grandi autori come Baudelaire, Leopardi, e successivamente agli scrittori americani. La sua vita tuttavia non s’identifica in quel periodo solo con gli studi. Proprio in quegli anni appare la prima immagine di donna: una “cantante ballerina” gli concede un appuntamento quasi per scherzo e lo costringe ad attenderla inutilmente dalle sei del pomeriggio alla mezzanotte. Un episodio molto amaro, riportato in pochi versi dal grande cantautore Francesco De Gregori nel suo noto brano sulla sofferenza umana “Alice non lo sa” con le seguenti struggenti parole: “E Cesare perduto nella pioggia/Sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina/E rimane lì a bagnarsi ancora un po’/E il tram di mezzanotte se ne va/Ma tutto questo Alice non lo sa.


La lunga attesa, il freddo pungente, la frustrazione morale gli procureranno una pleurite che sconfinerà nell’insonnia ed in tre mesi di studio perduto. Da quel momento inizia la frustrante attesa della donna come figura liberatrice dal dolore esistenziale che lo attanaglia.
Nel 1930, Pavese si laurea in Lettere presso l’Università di Torino, con una tesi su Walt Whitman, segno evidente del suo crescente ed inarrestabile interesse per la letteratura americana. Proprio in virtù di questa passione comincia a lavorare come traduttore, un ruolo che avrebbe giocato un’importanza cruciale nella sua carriera e nella sua influenza culturale, quasi un tentativo di scavo nell’immensa profondità dell’uomo, concepito come essere vivente mitico e arcaico.

Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno" di Cesare Pavese - Frasi in esergo

Negli anni Trenta, Pavese diviene un attivo antifascista e nel 1935 viene arrestato e condannato al confino per aver ospitato la scrittrice e poetessa antifascista Bianca Garufi, ( nella foto in basso ) con la quale intrattiene una relazione sentimentale. Condannato a tre anni di confino in Calabria, tale esperienza, seppur molto dolorosa, è da considerarsi nello stesso tempo formativa poiché segna l’inizio di una riflessione profonda sulla solitudine e l’alienazione, ma non solo. Questo evento influenza la sua visione del regime e della politica, contribuendo a rafforzare una posizione critica, sebbene più espressa attraverso la cultura che attraverso l’azione diretta. Il suo pensiero politico è complesso e spesso sfumato, riflettendo più un interesse per le questioni esistenziali e sociali che un impegno politico diretto. Non è infatti un militante politico attivo, ma il suo pensiero viene influenzato dal contesto storico e culturale in cui vive.

 

Tornato a Torino, un’altra cocente delusione amorosa lo attende: la “donna dalla voce rauca“, una donna di cui si innamora in quegli anni, si è sposata. Dopo aver appreso tale notizia, Pavese cade per terra svenuto. Profondamente amareggiato, riprende la sua attività letteraria e editoriale, affermandosi come traduttore di autori americani, apportando così un notevole contributo alla diffusione della letteratura statunitense in Italia, come già sottolineato prima.
Continua il suo lavoro presso Einaudi con cui intraprende una relazione lavorativa destinata a durare per tutta la sua vita e pubblica la sua prima raccolta di poesie, Lavorare stanca (1936), che, nonostante non abbia un immediato successo di pubblico, rivela la sua straordinaria capacità di rappresentare la fatica del vivere e l’alienazione del mondo rurale.

Nel 1941, pubblica il suo primo romanzo, “Paesi tuoi, un’opera che si distingue per il realismo crudo con cui descrive la vita contadina e per il suo stile essenziale e asciutto. Ambientato nelle campagne piemontesi, il romanzo racconta la storia di Berto, un giovane cittadino, e di Talino, un contadino con un passato tormentato. Il racconto si sviluppa intorno alla loro relazione e ai conflitti che emergono tra la cultura urbana e quella rurale, esplorando temi come la violenza, l’isolamento e la crudeltà della vita contadina. “Paesi tuoi” è stato considerato un romanzo rivoluzionario per il suo stile realistico e per l’attenzione ai dettagli della vita rurale, lontano dalle rappresentazioni idealizzate della campagna italiana presenti nella letteratura del tempo.

Gli anni della Seconda Guerra Mondiale sono particolarmente difficili per Pavese. Sebbene non partecipi attivamente alla lotta partigiana, la guerra e l’occupazione tedesca influenzeranno il suo pensiero e la sua produzione letteraria. Torino, dove continua a vivere e lavorare, è dilaniata dai bombardamenti, e lo scrittore si rifugia per un po’ di tempo in campagna. Durante questi anni continua a scrivere intensamente e, proprio in seguito a tali dolorosi momenti, prendono vita diversi romanzi e racconti tra cui bisogna menzionare “Dialoghi con Leucò” (1947), una raccolta di dialoghi filosofici che si svolgono tra vari personaggi della mitologia greca,  La casa in collina (1949), La luna e i falò (1950), ritenuto il suo capolavoro e “Il mestiere di vivere” (1952). Negli anni successivi alla guerra, Pavese si avvicina al Partito Comunista Italiano, che vede come una forza di rinnovamento sociale ed etico dopo il crollo del fascismo. Tuttavia, il suo comunismo è più di tipo intellettuale che militante, ispirato da un desiderio di giustizia sociale piuttosto che da una vera adesione ideologica. Questa sua posizione si riflette soprattutto nella sua opera  “Il compagno (1947), in cui esplora il tema dell’impegno politico e della presa di coscienza da parte di un uomo semplice.

La casa in collina” è un romanzo autobiografico che riflette le sue esperienze durante la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza italiana. Il protagonista, Corrado, è un insegnante che si rifugia sulle colline torinesi per sfuggire ai bombardamenti e alla guerra. Nel romanzo, Pavese esplora il senso di colpa e la tensione morale che derivano dalla scelta di rimanere spettatore piuttosto che attore durante un periodo di conflitto. Opera profondamente introspettiva, tale romanzo mette in luce la fragilità umana di fronte alle tragedie storiche e personali.

 


La luna e i falò“, ultimo romanzo di Cesare Pavese, è ambientato nelle Langhe. In tale opera lo scrittore racconta la storia di Anguilla, un emigrato che torna nel suo paese natale dopo anni di assenza. Attraverso il suo ritorno, Pavese esplora il tema del legame con le proprie radici, il senso di appartenenza e la ricerca di identità. Il romanzo è caratterizzato da una prosa lirica e evocativa, che cattura la bellezza e la durezza della campagna piemontese, e riflette le tensioni tra passato e presente, tradizione e modernità.

Nonostante il successo letterario e il riconoscimento pubblico, lo scrittore continua a vivere una profonda crisi interiore. L’angoscia esistenziale, l’isolamento emotivo e le delusioni sentimentali lo portano ad una crescente depressione. Il 27 agosto del 1950, Pavese si toglie la vita in una stanza d’albergo a Torino, assumendo una dose letale di barbiturici. Il suo ultimo messaggio, “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi“, riflette la sua profonda stanchezza di vivere. “Nel corridoio discreto, varie persone, camerieri, signori, la mia impertinente si accalcavano davanti a una porta. Qualcuno, sottovoce, esclamava qualcosa. Poi la porta si spalancò e piano con molti riguardi, due camici bianchi portarono fuori una barella. Tutti tacquero e fecero largo. Sulla barella era distesa una ragazza – viso gonfio e capelli in disordine – vestita da sera di tulle celeste, senza scarpe. Benché avesse le palpebre e le labbra smorte, si indovinava una smorfia che era stata spiritosa. Guardai d’istinto sotto la barella se gocciava sangue.” Questo passo significativo, tratto dal racconto “Tre donne sole” è la morte di Pavese come lui stesso la descrive, in un momento in cui probabilmente aveva già preso in considerazione tale estrema decisione.


Diversi fattori forse contribuiscono alla sua decisione di porre fine alla propria vita. La sua sofferenza emotiva e la sua depressione erano ben note, documentate nel suo diario personale, Il mestiere di vivere. Sembrerebbe che uno degli eventi chiave che porterà ad un aggravamento della sua depressione è la fine della relazione con l’attrice americana Constance Dowling. Pavese vive intensamente questa relazione, ma quando la donna decide di lasciarlo e di tornare negli Stati Uniti, il dolore per la separazione lo devasta. A Dowling Pavese dedica una delle sue ultime raccolte poetiche, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” (1951), in cui il tema della morte è intrecciato con quello dell’amore e della perdita.

 

Constance Dowling

 

 

Nonostante il suo successo letterario e la sua partecipazione attiva nel panorama culturale italiano, Pavese si sente sempre profondamente solo. Il suo diario è pieno di riflessioni sulla sua incapacità di trovare un senso di appartenenza o di stabilire legami autentici con gli altri. Una solitudine non solo fisica, ma soprattutto esistenziale: Pavese si sente alienato dal mondo, incapace di trovare uno scopo che possa dare un senso alla sua vita. La morte, come testimoniano molti dei suoi scritti, è per lui una presenza costante, qualcosa che non teme, ma che anzi considera come una possibile liberazione dal dolore dell’esistenza.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. | Citazioni poetiche, Citazioni casuali, Citazioni famose

Nella sua opera “Il mestiere di vivere,  si nota più volte la sua stanchezza nei confronti della vita, esprimendo la consapevolezza che, per lui, la felicità e la pace interiore sono irraggiungibili. In uno dei brani più noti, scrive: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla.” Un brano che indubbiamente racchiude la sua visione disincantata della vita, dove l’amore e le relazioni sono solo dei momenti transitori che mettono in luce la vulnerabilità dell’individuo. Nonostante abbia appena vinto il Premio Strega per “La bella estate, la sua crisi personale si accresce ogni giorno di più in quell’estate del 1950. Pochi giorni prima di porre fine alla propria vita, scrive nel suo diario delle frasi che rivelano il suo stato d’animo: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.


Di seguito alcune citazioni e poesie di questo immenso autore, da considerarsi fra i pochissimi classici italiani del Novecento, molto coinvolgente e attuale.

***

Lo steddazzu 

L’uomo solo si leva che il mare e ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

***

 

***
Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.
***


Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?” Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

***

Estate

C’è un giardino chiaro, fra mura basse,

di erba secca e di luce, che cuoce adagio

la sua terra. È una luce che sa di mare.

Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli

e ne scuoti il ricordo.

                                         Ho veduto cadere

molti frutti, dolci, su un’erba che so,

con un tonfo. Così trasalisci tu pure

al sussulto del sangue. Tu muovi il capo

come intorno accadesse un prodigio d’aria

e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale

nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.

   

                                                                Ascolti.

Le parole che ascolti ti toccano appena.

Hai nel viso calmo un pensiero chiaro

che ti finge alle spalle la luce del mare.

Hai nel viso un silenzio che preme il cuore

con un tonfo, e ne stilla una pena antica

come il succo dei frutti caduti allora.

 

 

Mania di solitudine

Mangio un poco di cena alla chiara finestra.

Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.

A uscir fuori, le vie tranquille conducono

dopo un poco, in aperta campagna.

Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne

stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;

il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.

Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare

sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,

ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.

Vedo il cielo, ma so che tra i tetti di ruggine

qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.

Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita

delle piante e dei fiumi, e si sente staccato da tutto.

Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma

nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.

Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,

che l’accettano senza scomporsi: un brusìo di silenzio.

Ogni cosa nel buio la posso sapere

come so che il mio sangue trascorre le vene.

La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,

una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso

vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene

di ogni cosa che vive su questa pianura.

Non importa la notte. Il quadrato di cielo

mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta

si dibatte nel vuoto, lontana dai cibi,

dalle case, diversa. Non basta a se stessa,

e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,

il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.

 

C’è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini.

Lavorare stanca

Traversare una strada per scappare di casa

lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira

tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo

e non scappa di casa.

                                        Ci sono d’estate

pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese

sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge

per un viale di inutili piante, si ferma.

Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?

Solamente girarle, le piazze e le strade

sono vuote. Bisogna fermare una donna

e parlarle e deciderla a vivere insieme.

Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte

c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi

e racconta i progetti di tutta la vita.

Non è certo attendendo nella piazza deserta

che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade

si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,

anche andando per strada, la casa sarebbe

dove c’è quella donna e varrebbe la pena.

Nella notte la piazza ritorna deserta

e quest’uomo, che passa, non vede le case

tra le inutili luci, non leva più gli occhi:

sente solo il selciato, che han fatto altri uomini

dalle mani indurite, come sono le sue.

Non è giusto restare sulla piazza deserta.

Ci sarà certamente quella donna per strada

che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

***

Gli ignoranti saranno sempre ignoranti, perché la forza è nelle mani di chi ha interesse che la gente non capisca.
Illustrazione di Manuele Fior.

“L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante.”

 

Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile.

 

 

Gente spaesata

Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare.

Alla sera, che l’acqua si stende slavata

e sfumata nel nulla, l’amico la fissa

e io fisso l’amico e non parla nessuno.

Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa,

isolati nel fumo, e beviamo. L’amico ha i suoi sogni

(sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare)

dove l’acqua non è che lo specchio, tra un’isola e l’altra,

di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate.

Il suo vino è così. Si contempla, guardando il bicchiere,

a innalzare colline di verde sul piano del mare.

Le colline mi vanno, e lo lascio parlare del mare

perché è un’acqua ben chiara, che mostra persino le pietre.

Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra

con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.

Solamente, le mie sono scabre, e striate di vigne

faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta

e le vuole vestire di fiori e di frutti selvaggi

per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti.

Non occorre: ai miei sogni più scabri non manca un sorriso.

Se domani sul presto saremo in cammino

verso quelle colline, potremo incontrar per le vigne

qualche scura ragazza, annerita di sole,

e, attaccando discorso, mangiarle un po’ d’uva.

***

 

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

saranno una vana parola,

un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina

quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti.

 

Pensieri di Dina

Dentro l’acqua che scorre ormai limpida e fresca di sole,

è un piacere gettarsi: a quest’ora non viene nessuno.

Fanno rabbrividire, le scorze dei pioppi, a toccarle col corpo,

più che l’acqua scrosciante di un tuffo. Sott’acqua è ancor buio

e fa un gelo che accoppa, ma basta saltare nel sole

e si torna a guardare le cose con occhi lavati.

È un piacere distendersi nuda sull’erba già calda

e cercare con gli occhi socchiusi le grandi colline

che sormontano i pioppi e mi vedono nuda

e nessuno di là se ne accorge. Quel vecchio in mutande

e cappello, che andava a pescare, mi ha vista tuffarmi,

ma ha creduto che fossi un ragazzo e nemmeno ha parlato.

Questa sera ritorno una donna nell’abito rosso

– non lo sanno che sono ora stesa qui nuda quegli uomini

che mi fanno i sorrisi per strada – ritorno vestita

a pigliare i sorrisi. Non sanno quegli uomini

che stasera avrò fianchi più forti, nell’abito rosso,

e sarò un’altra donna. Nessuno mi vede quaggiù:

e di là dalle piante ci son sabbiatori più forti

di quegli altri che fanno i sorrisi: nessuno mi vede.

Sono sciocchi gli uomini – stasera ballando con tutti

io sarò come nuda, come ora, e nessuno saprà

che poteva trovarmi qui sola. Sarò come loro.

Solamente, gli sciocchi, vorranno abbracciarmi ben stretta,

bisbigliarmi proposte da furbi. Ma cosa m’importa

delle loro carezze? So farmi carezze da me.

Questa sera dovremmo poter stare nudi e vederci

senza fare sorrisi da furbi. lo sola sorrido

a distendermi qui dentro l’erba e nessuno lo sa.

***

 


“Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici.”

 

La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo.

 


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