«La poesia solleva il velo dalla bellezza nascosta del mondo, e rende oggetti familiari come se non fossero familiari».
Tra i massimi esponenti della poesia inglese, Percy Bysshe Shelley esprime magistralmente il pensiero romantico, in preda incessantemente ad emozioni contrastanti che oscillano tra gioie estatiche e cupe disperazioni. Noto per il suo temperamento ribelle, si distingue per le sue opinioni sociali e politiche molto radicali ed in netta opposizione alle norme sociali esistenti. Per tale ragione il suo impeto lirico di notevole intensità che si sposa alla tendenza tipicamente romantica di indugiare, talvolta in modo furente, nel proprio mondo interiore, non gli recano molta notorietà nel periodo in cui vive; solo dopo la morte la sua poesia ottiene il meritato riconoscimento, assurgendo a modello per le generazioni successive di scrittori e poeti. Profondo sostenitore della giustizia sociale, dopo aver assistito al maltrattamento e alla macellazione degli animali, diventa anche uno strenuo difensore di tutte le creature viventi. A causa del suo pensiero fortemente anticonvenzionale, non poche sono le riviste e le case editrici che rifiutano la sua produzione letteraria in preda al timore di essere arrestate per attività eversive. Idealista intransigente assetato d’infinito, Shelley infonde nella sua poesia una profonda passione per la vita.
La dimensione delle sue liriche, negli anni giovanili prettamente politica e sociale, si muove con il passare del tempo verso una dimensione cosmica e spirituale, indagando sulla relazione tra l’uomo e l’universo. Ricca di simbolismo e di immagini potenti, in particolar modo visive, la poetica di Shelley riflette le sue circostanze di vita e le sue convinzioni politiche, sebbene con la sopraggiunta maturità il perseguimento dell’ideale si scontrerà col sorgere dello scetticismo, un po’ attenuato dalla profonda convinzione della funzione profetica del poeta.
Il suo temperamento ribelle fluisce in opere in cui è protagonista l’anelare ad una rigenerazione dei cuori che può realizzarsi solamente attraverso l’azione purificatrice dell’Amore, della Bellezza e della Verità. Senza tale rinascita non si potrà assistere ad alcun cambiamento della società e sarà inutile ogni tentativo di riforma. L’Amore, la Bellezza e la Verità possono essere ricercati solo nella nostra mente. Ma cosa intende Shelley per questi valori assoluti? La sua intolleranza nei confronti di tutte le religioni lo conduce ad una ricerca del divino che si compie attraverso l’idea platonica dell’universo, l’umanizzazione della natura e l’anelito ad un uomo nuovo, libero ed etereo.
L’Amore non si limita al mero sentimento umano, ma si traduce nel tentativo di far sorgere in tutto ciò che ci circonda quello stesso stato di grazia che sperimentiamo dentro di noi. Un valore che richiama la nostra identità universale senza sminuire la nostra individualità. Un passo significativo verso l’immenso ritmo di quello Spirito Universale che abbraccia tutto il nostro essere.
La Bellezza simboleggia un’enigmatica illuminazione a cui si può giungere attraverso una particolare disciplina. Ma si può anche esserne fatalmente travolti. L’Amore e la Bellezza non sono valori separati; operano insieme e chi ha in sé l’Amore attinge alla Bellezza.
Riporto una delle poesie più suggestive di Shelley dal titolo “Inno alla bellezza intellettuale“.
I
Ombra terribile un Potere occulto
Invisibile fluttua in mezzo a noi,
Il nostro vario mondo visitando
Con ala disuguale come vento
D’estate che da fiore a fiore sbiscia.
Balugina nel cuore e nel sembiante
D’ogni essere umano variamente,
Come pioggia di luna che diluvia
Dietro una vetta coperta di pini;
Come i colori e le dolci armonie
Crepuscolari; come nubi sparse
Nella luce diffusa delle stelle;
Come ricordo di una melodia;
Come quello che può per la sua grazia
Essere caro, e più pel suo mistero.
II
Spirito di Bellezza, che consacri
Coi tuoi colori ogni pensiero umano
O umana forma che da te s’irradi
Dove sei mai? Perché ti dilegui
E lasci questa nostra vita, questa
Valle di pianto smisurata e cupa,
Desolata e vuota? Chiedi: Perché
Non sempre il sole intesse arcobaleni
Laggiù, sui monti, dove scorre il fiume?
Perché sfiorisce e muore ciò che ha vita?
Perché gettano il sogno e la paura,
La nascita e la morte, sulla luce
Di questa terra un’ombra così lugubre?
Perché l’amore, l’odio, la speranza,
L’angoscia sono dati in sorte all’uomo?
III
Queste risposte mai nessuna voce
Da più sublime mondo diede a un saggio
O ad un poeta; e i nomi di Demonio,
Spirito, Cielo, restano a ricordo
Del loro sforzo vano, sortilegi
Senza potere, il cui cantato verso
Non basta a sceverare dalle cose
Che vediamo e sentiamo, il dubbio, il caso
E il mutamento. La tua luce sola,
Come nebbia che sale alla montagna,
O musica che il vento della notte
Sveglia dal sonno in tacito strumento,
O a mezzanotte sopra un rivo d’acqua
Luna piena, dà grazia e verità
Al sogno inquieto della nostra vita.
IV
Nubi che vengono e vanno con l’Amore,
L’Orgoglio e la Speranza, e ci son dati
Per qualche istante privo di certezza.
Immortale sarebbe, e onnipotente,
L’uomo, se tu, sia pure sconosciuto
E terribile, avessi ferma stanza,
Con tua corte di gloria nel suo cuore.
O messaggero delle simpatie
Che negli sguardi degli innamorati
Crescono e calano, tu, che l’umano
Pensiero nutri, come fa la tenebra
Col fuoco moribondo, non svanire,
Quando si mostra l’immagine tua,
Perché non sia la tomba tenebrosa
Realtà, come la vita e la paura.
V
Fanciullo ancora, cercavo gli spiriti,
E mi aggiravo nei tesi silenzi
Di camere, di grotte, di rovine,
E per i boschi al lume delle stelle,
Inseguendo con passi timorosi
Speranze di colloqui con i morti.
Ed invocavo i velenosi nomi
Che nutrono la nostra giovinezza;
Non fui udito, né li vidi, quando
Nella dolce stagione in cui l’amore
Dei venti gioca con tutte le cose
Viventi, che si destano a portare
Nuove di uccelli e fiori, all’improvviso,
Nel meditare sul destino umano,
La possente ombra tua mi folgorò:
Gridai, e in estasi giunsi le mani!
VI
Giurai – e il giuramento ho mantenuto –
Di dedicare tutti i miei poteri
A te e ai tuoi. Con occhi lacrimosi
E il cuore che mi batte, chiamo ancora,
Ciascuno dalla propria muta tomba,
Gli spettri di mille ore: esse hanno vinto,
Con me vegliando, la notte invidiosa
Nei fatati rifugi dell’impegno
Intellettuale e della voluttà
D’Amore; e sanno che nessuna gioia
Illuminò il mio viso che non fosse
Legata alla speranza che dal tetro
Servaggio questo mondo affrancherai,
Terribile BELLEZZA, e ci darai
Tutto ciò che è impossibile al mio dire.
VII
Il giorno più solenne e più sereno
Diventa dopo l’ora meridiana:
C’è nell’autunno una tale armonia,
Ed un tale splendore nel suo cielo,
Quali l’estate, quasi non potessero
Esistere, o non fossero mai stati,
Non vide né udì: così il suo potere,
Che sulla mia sofferta giovinezza
Discese, come il velo di natura,
Possa dar la pace al mio futuro,
A chi ti adora e adora ogni tua forma
E tu costringi, SPIRITO gentile,
A temere sé stesso e a consacrare
A tutti gli uomini tutto il suo cuore.
Attraverso l’Amore e la Bellezza l’uomo riesce a cogliere la Verità, l’essere in armonia con il mondo e solo chi vive l’Amore e la Bellezza può considerarsi veramente libero. Il nostro poeta rinuncia ai velleitari sogni di una libertà raggiunta sostituendo un potere ad un altro e, consapevole del ripetersi immutabile di rivoluzioni che ben poco di nuovo hanno apportato alla storia, aspira al conseguimento di una libertà che si realizza attraverso la rinascita nella mente dell’uomo. Quest’ultimo ha il dovere di influenzare la vita e l’ambiente che lo circonda esercitando pienamente la propria volontà. Cosa riesce a far sorgere nella mente umana questo desiderio di apportare il proprio contributo al mondo? Secondo Shelley questo delicato compito non appartiene alla politica, ma alla poesia.
Condivido il pensiero di Roberto Sanesi che così descrive la poesia di Shelley: «…intuì nell’immaginazione una forza totalizzante e dinamica, capace di superare la realtà immobile e priva di significato morale studiata dalla scienza, fino a giungere, unendosi a tale intelligenza scientifica, a creare un ethos estetico. La poesia, scrive Shelley, è nello stesso tempo il centro e la circonferenza della conoscenza […] la consapevolezza del disfacimento, del dolore e della morte.»
La sua poesia, dunque, oltre a richiamare la memoria dei simboli, mira a far sorgere nell’uomo quella consapevolezza necessaria per raggiungere una piena libertà.
Solo grazie all’acquisizione di quei valori assoluti l’uomo può porre rimedio ai mali che affliggono la società. Mosso da una prepotente ansia di rinnovamento, Shelley cerca di dar voce ai suoi ideali e alla sua potente immaginazione attraverso una poesia che sfida le convenzioni sociali e diviene un appello che mira ad affrancare l’uomo dalla tirannia. In fuga dalle delusioni e dalle ingiustizie del mondo, il poeta si rifugia nella Natura a cui consegna l’incarico di attuare una piena rinascita dell’umanità. Nella nota poesia “Ode al Vento di Ponente” (1820) si manifesta chiaramente la personificazione di un elemento della natura, il vento, foriero di un’agognata rigenerazione. Il vento, inizialmente distruttivo, diviene una forza creativa in cui lo stesso Shelley s’identifica e affida i suoi sogni.
Ode al Vento di Ponente
I
Oh tu Vento selvaggio occidentale, respiro
dell’anima d’Autunno, oh presenza invisibile da cui
le foglie morte sono trascinate, come spettri in fuga
da un mago incantatore, gialle e nere,
pallide e rosse d’etisia, moltitudini
che il contagio ha colpito: oh tu che guidi
i semi alati ai loro letti oscuri
dell’inverno in cui giacciono freddi e profondi
come una spoglia sepolta nella tomba,
finché la tua azzurra sorella della Primavera
non farà udire la squilla sulla terra in sogno
e colmerà di profumi e di colori vividi
il colle e la pianura, nell’aria i lievi bocci conducendo
simili a greggi al pascolo; oh Spirito selvaggio,
tu che dovunque t’agiti, e distruggi e proteggi: ascolta, ascolta!
II
Tu nella cui corrente, nel tumulto
del cielo a precipizio, le nuvole disperse
sono spinte qua e là come foglie appassite
scosse dai rami intricati del Cielo e dell’Oceano,
angeli della pioggia e del fulmine, e si spargono
là sull’azzurra superficie delle tue onde d’aria
come la fulgida chioma che s’innalza
sopra la testa d’una fiera Menade, dal limite
fioco dell’orizzonte fino alle altezze estreme dello zenit,
capigliatura della tempesta imminente. Canto funebre
tu dell’anno che muore, al quale questa notte che si chiude
sarà la cupola del suo sepolcro immenso, sostenuta a volta
da tutta la potenza riunita dei vapori
dalla cui densa atmosfera esploderà una pioggia
nera con fuoco e grandine: oh, ascolta!
III
Tu che svegliasti dai loro sogni estivi
le acque azzurre del Mediterraneo, dove
si giaceva cullato dal moto dei flutti cristallini
accanto a un’isola tutta di pomice del golfo
di Baia e vide in sonno gli antichi palazzi e le torri
tremolanti nel giorno più intenso dell’onda, sommersi
da muschi azzurri e da fiori dolcissimi al punto
che nel descriverli il senso viene meno!
Tu per il cui sentiero la possente
superficie d’Atlantico si squarcia
e svela abissi profondi dove i fiori
del mare e i boschi fradici di fango, che indossano
le foglie senza linfa dell’oceano, conoscono
la tua voce e si fanno all’improvviso grigi
per la paura e tremano e si spogliano: oh, ascolta!
IV
Fossi una foglia appassita che tu potessi portare;
fossi una rapida nuvola per inseguire il tuo volo;
un’onda palpitante alla tua forza, e potessi
condividere tutto l’impulso della tua potenza,
soltanto meno libero di te, oh tu che sei incontrollabile!
Potessi essere almeno com’ero nell’infanzia, compagno
dei tuoi vagabondaggi alti nei cieli, come quando
superare il tuo rapido passo celeste
sembrava appena un sogno; non mi rivolgerei
a te con questa preghiera nella mia dolente
necessità. Ti prego, levami come un’onda, come
una foglia o una nuvola. Cado
sopra le spine della vita e sanguino! Un grave
peso di ore ha incatenato, incurvato
uno a te troppo simile: indomito, veloce ed orgoglioso.
V
Fa’ di me la tua cetra, com’è della foresta;
che cosa importa se le mie foglie cadono
come le sue! Il tumulto
delle tue forti armonie leverà a entrambi un canto
profondo e autunnale, e dolcemente triste.
Che tu sia dunque il mio spirito, o Spirito fiero!
Spirito impetuoso, che tu sia me stesso!
Guida i miei morti pensieri per tutto l’universo
come foglie appassite per darmi una nascita nuova!
E con l’incanto di questi miei versi disperdi
come da un focolare non ancora spento,
le faville e le ceneri, le mie parole fra gli uomini!
E alla terra che dorme, attraverso il mio labbro,
tu sia la tromba d’una profezia! Oh, Vento,
se viene l’Inverno, potrà la Primavera esser lontana?
Con una padronanza magistrale della metrica ed un’accurata scelta dei vocaboli, Shelley ci lascia vagare in un universo di magiche sfumature e di sorprendenti moti dell’animo, riuscendo, laddove molti hanno fallito, a trasformare la sua filosofia in poesia.
L’inquietudine e il rimuginare, la ribellione all’autorità, l’armonia con la natura, il potere dell’immaginazione visionaria e della poesia, la ricerca dell’amore ideale e della libertà, tutti temi cari a Shelley, si riscontrano non solo nella corporea produzione letteraria a noi pervenuta, ma anche nel modo in cui il nostro poeta conduce la propria esistenza sino alla leggendaria morte avvenuta a soli ventinove anni.
Nato il quattro agosto del 1792 a Field Place, Horsham, nella contea del Sussex, da aristocratica e facoltosa famiglia, Percy Bishhe Shelley viene mandato all’età di dieci anni alla Sion House Academy di Brentford. Il suo temperamento solitario e impacciato lo rende vittima degli scherzi dei compagni e, nonostante sia uno studente molto brillante, serba un pessimo ricordo di quegli anni, definendo la scuola “un perfetto inferno“. Si rifugia nella lettura di romanzi gotici e sorprende le sorelline con racconti del terrore.
Prosegue gli studi a Eton dove gli affibbiano il soprannome di “Shelley il pazzo” a causa della sua profonda avversione verso ogni forma di potere.
Nel 1810 viene ammesso all’Università di Oxford da cui sarà presto espulso per aver scritto e diffuso un opuscolo sulla “Necessità dell’ateismo” (1811). In questo periodo cominciano le sue esercitazioni letterarie che vedranno la luce sotto forma di poesie e romanzi. Ormai il suo spirito ribelle è esploso in tutta la sua intensità. Allontanato dalla famiglia, si reca a Londra dove conosce la sedicenne Harriet Westbrook. I due giovani si sposano nel 1811 e cominciano a vagabondare attraverso l’Inghilterra, l’Irlanda e il Galles. Dal matrimonio con Harriet nasceranno due figli. In questo periodo compone la ballata “La passeggiata del diavolo” (1812), alcuni opuscoli di propaganda anarchica, e il poemetto “La Regina Mab“, un riadattamento in versi dell’opera “Giustizia politica” del filosofo anarchico William Godwin. Si dedica anche agli studi della lingua e della letteratura italiana, aiutato da Cornelia Turner con cui instaura una significativa relazione da cui trarrà ispirazione nella composizione di alcune sue grandi poesie.
Il matrimonio con Harriet comincia a traballare e non solo per la giovane età dei coniugi; Percy s’innamora perdutamente di Mary Godwin, figlia del filosofo sopraccitato e futura Mary Shelley, autrice di “Frankenstein”. Per amore di Mary lascia la moglie e i figli e nel 1814 fugge con la giovane donna in Francia. Tornerà in Inghilterra nel 1816. La sua felicità sarà offuscata dal suicidio della sorella di Mary, segretamente innamorata del poeta, e dalla morte di Harriet, che, incapace di affrontare l’abbandono del marito, si toglierà la vita lasciando al nostro poeta un lancinante senso di colpa che lo perseguiterà per tutta la vita.
Il 30 dicembre del 1816 Percy e Mary si uniscono in matrimonio. La condanna della società benpensante inglese non tarda ad arrivare e il poeta si vede negare l’affidamento dei figli avuti con Harriet a cause delle sue idee anarchiche. Sono anni difficili, ma Shelley continua a scrivere. Da ricordare di questo periodo il poemetto “Alastor ovvero lo Spirito della Solitudine“, le poesie “L’Inno alla Bellezza Intellettuale” e “Monte Bianco“, ed il poemetto rivoluzionario “La rivolta dell’Islam“. In quest’ultima opera è ormai evidente il distacco del poeta dalla filosofia anarchica che si manifesta con un ulteriore approfondimento della dimensione cosmica e simbolica del suo pensiero.
Nel 1818 Shelley si stabilisce in Italia, in quel periodo luogo ideale vagheggiato dai poeti romantici inglesi. La decisione di trasferirsi nasce tuttavia dal tormento dei creditori e dalla paura che i figli avuti con Mary possano essergli strappati. Qui, oltre a continuare a frequentarsi con Byron, scrive le sue opere più significative, tra cui bisogna ricordare le liriche dedicate a Jane Williams, ultimo suo grande amore. Appresa la notizia della morte di Keats compone l’eccezionale elegia “Adonais“. Si spegnerà l’otto luglio del 1822, inghiottito dai gorghi del Tirreno insieme ad altre due persone, durante una gita in barca nel Golfo di La Spezia. L’incidente resta avvolto nel mistero e non pochi hanno ipotizzato che Shelley non abbia attuato alcun tentativo di salvarsi dal naufragio e si sia lasciato morire. Dopo una settimana il suo corpo viene rinvenuto e cremato. In una tasca della sua giacca viene trovato il manoscritto del suo ultimo grande poema, “Il trionfo della vita“, interrotto dinnanzi a quell’interrogativo sospeso insito in molti di noi: “Che cos’è la vita“?
Di seguito una selezione di alcune sue poesie.
Alla Musica
(frammento)
Chiave d’argento della fonte delle lacrime,
A cui l’anima beve finché non si esalta il cervello;
Dolce sepolcro di mille paure,
Dove la madre loro, l’Ansia, giace,
Come un bambino pieno di sonno,
Tra i fiori addormentata.
A un’Allodola
Salute a te, o spirito di gioia!
Tu che non fosti mai uccello, e dall’alto
del Cielo, o vicino, rovesci
la piena del tuo cuore in generose
melodie di un’arte non premeditata.
Sempre più in alto, più in alto, ti vedo
guizzare dalla terra, una nube di fuoco,
e percorri con l’ali l’infinito azzurro,
ti levi nell’aria cantando,
e librandoti alta ancora canti.
Nei bagliori dorati del sole
che sta per tramontare, là dove
s’accendono in alto le nubi
tu corri e veleggi, una gioia incorporea
che ha appena dato inizio alla sua corsa.
La pallida sera di porpora
attorno al tuo volo si scioglie;
come una stella del Cielo nel colmo
della luce del giorno tu resti
completamente invisibile, eppure
odo la tua felicità squillante, acuta
come le frecce di quella sfera argentea
la cui lampada intensa si sfoca
nel bianco chiarore dell’alba,
così che noi faticosamente
la riusciamo a vedere, pur sapendo
dove si trova. Della tua voce risuonano
l’aria e la terra, come quando è limpida
la notte e da una nube solitaria
la luna piove i suoi raggi e n’è sommerso il cielo.
Noi non sappiamo cosa sei, né a cosa
più rassomigli. Dalle nubi accese
dal colorato arcobaleno non si versa goccia
che tanto splenda a vedersi come dalla
tua presenza un rovescio di pioggia melodiosa.
Sei come un poeta nascosto
entro la luce del pensiero, un poeta che canta
liberamente i suoi inni, finché il mondo
entra in perfetto accordo
con le speranze e i timori che prima ignorava;
sei come una fanciulla di nobile nascita
che acquieta nella torre di un palazzo
la sua anima oppressa dall’amore,
in un’ora segreta, con una musica dolce
come l’amore stesso, e ne inonda la camera;
sei come una lucciola d’oro
in una piccola valle coperta di rugiada,
che diffonde nascosta agli sguardi
la sua aerea luminescenza
in mezzo ai fiori e all’erba che la celano;
sei come una rosa protetta
dalle sue foglie verdi, violata
dai venti caldi, finché il suo profumo
illanguidisce con troppa dolcezza
quei ladri dall’ala pesante;
il suono dei rovesci della pioggia
primaverile sull’erba scintillante,
i fiori risvegliati dagli scrosci, e ogni cosa
che sia stata felice e chiara e fresca
la tua musica sempre la supera.
Insegnaci, Spirito o Uccello,
quali dolci pensieri sono i tuoi:
io non ho mai udito una lode d’amore o di vino
da cui fluisse così palpitante
un simile celeste rapimento.
Cori d’Imene o canti di trionfo
paragonati al tuo non sarebbero altro
che una misera vuota vanteria,
cose in cui noi sentiamo si nasconde
sicuramente un difetto.
Quali ragioni sono la sorgente
di questa tua felice melodia?
Che prati, onde o montagne? Quali aspetti
della pianura o del cielo? Che amore
della tua stessa specie? Che ignoranza
perfino del dolore? con la tua
chiara ed acuta gioia non potrà mai esistere
il languore, né un’ombra di noia
mai t’è venuta accanto; tu ami, eppure mai
hai conosciuto la triste sazietà d’amore.
Che tu sia desta o in sonno, della morte
devi considerare cose più vere e profonde
di quanto in sogno gli uomini, altrimenti
come potrebbero mai le tue note
fluire in simili rivi cristallini?
Noi guardiamo in avanti, guardiamo
dietro di noi, e siamo tormentati
da tutto ciò che non è: le nostre risa,
anche le più sincere, nascondono la pena,
e le nostre canzoni più dolci sono quelle
che raccontano sempre il pensiero più triste.
Anche se noi potessimo schernire
odio paura e orgoglio, anche fossimo nati
per non versare lacrime, non so
come potremmo giungere alla tua stessa gioia.
Più di qualsiasi misura di suoni deliziosi
sarebbe adatta al poeta la tua maestria,
più di qualsiasi tesoro nascosto nei libri,
o tu che hai in dispregio la terra!
E dunque insegnami almeno la metà
di tutta quella gioia che conosci:
dalle mie labbra allora fluirebbe
una follia armoniosa, e finalmente il mondo
ascolterebbe, proprio come me
che sono qui in ascolto della tua.
La Nuvola
Da mari e fiumi porto fresche piogge
per i fiori assetati; e alle foglie
porto un’ombra leggera quando stanno
a riposare nei sogni meridiani.
Dalle mie ali stillano rugiade
che svegliano uno ad uno i dolci bocci
quando sono cullati sul seno della madre
che danza attorno al sole. Uso il flagello
della sferzante grandine, e imbianco le verdi
pianure sottostanti,
e poi di nuovo la dissolvo in pioggia,
e mentre passo rintronando rido.
Setaccio le nevi sui monti
e i grandi pini gemono spauriti;
tutta la notte è questo il mio cuscino bianco
mentre dormo abbracciata con i turbini.
Sublime sulle torri delle mie
dimore celestiali siede il lampo
che mi fa da pilota; e in una grotta
è incatenato il tuono, che lotta strenuamente
e si dibatte in gemiti terribili;
con lieve moto sulla terra e il mare
il pilota mi guida, e lo sospinge
l’amore di quei geni che si muovono
nelle profondità del mare violetto;
sui torrenti e le rocce, sui colli,
sui laghi e le pianure, ovunque sogni,
sotto montagne o fiumi lo Spirito che lui
ama rimane; ed io per tutto il tempo mi riscaldo
all’azzurro sorriso dei Cieli
mentre lui si dissolve nella pioggia.
L’Aurora colore di sangue, con occhi di meteora,
con le sue piume ardenti dispiegate,
balza sopra il mio nembo veleggiante
quando la stella del mattino splende
quasi svanita; in questo modo, al culmine
di una vetta montana che si scuote e oscilla
a un terremoto, un’aquila discende
e si posa alla luce delle sue ali d’oro.
E quando il sole àlita al tramonto
dal mare illuminato i suoi ardori
di riposo e d’amore, ed il mantello cremisi
della sera ricade dal profondo abisso
dei Cieli, io mi soffermo con le ali chiuse
sopra il mio nido aereo, serena
come colomba intenta alla covata.
Quella fanciulla sferica ricolma
di fuoco bianco che i mortali chiamano
Luna scivola splendida sul mio
corpo simile a un vello che sia stato steso
a mezzanotte dai venti; e ovunque il passo
di quei piedi invisibili che gli angeli soltanto
possono udire, alla mia tenda abbia sfondato il fragile
traliccio che la copre, dietro di lei occhieggiano
e spiano le stelle. Io nel vederle rido
quando fuggono in turbini e assomigliano
a uno sciame di api dorate, e allora allargo
lo strappo nella tenda che mi eresse il vento,
finché i fiumi sereni e i laghi e i mari
come lembi di cielo quaggiù precipitati
sopra di me dall’alto
di luna e stelle siano lastricati.
Cingo il trono del Sole con una fascia ardente
e quello della Luna con un cinto di perle;
ogni vulcano è spento, le stelle vacillano e ondeggiano
quando il turbine spiega il mio stendardo.
Da un promontorio all’altro, con la forma
dell’arcata di un ponte su un mare torrentizio
che resiste a ogni raggio di sole,
resto sospesa in alto come un tetto –
e le colonne sono le montagne.
L’arco trionfale che oltrepasso in marcia
con l’uragano e il fuoco e con la neve
e le Potenze dell’aria incatenate al carro
non è che l’arcobaleno dai mille colori;
su cui la sfera di fuoco intrecciava le tinte
lievi e la fresca terra sorrideva in basso.
Sono la figlia dell’Acqua e della Terra,
sono l’allieva del Cielo;
passo attraverso i pori del mare e delle spiagge;
mi trasformo, ma mai potrò morire.
Perché dopo la pioggia,
quando la volta del Cielo è immacolata e nitida
e i venti e il sole coi convessi raggi
levano azzurra la cupola dell’aria,
io silenziosamente rido a quel mio cenotafio,
e come un neonato dal grembo,
come uno spettro dalla tomba sorgo
dalle caverne della pioggia e lo distruggo ancora.
Le fonti si confondono
Le fonti si confondono col fiume
i fiumi con l’Oceano
i venti del cielo sempre
in dolci moti si uniscono
niente al mondo è celibe
e tutto per divina
legge in una forza
si incontra e si confonde.
Perché non io con te?
Vedi che le montagne baciano l’alto
del Cielo, e che le onde una per una
si abbracciano. Nessun fiore-sorella
vivrebbe più ritroso
verso il fratello-fiore.
E il chiarore del sole abbraccia la terra
e i raggi della luna baciano il mare.
Per che cosa tutto questo lavoro tenero
se tu non vuoi baciarmi?
Diletto Domani, dove sei?
Da giovani e da vecchi, fiorenti
O malati, in letizia o dolore,
Sia ricchi sia poveri, noi sempre
Cerchiamo i tuoi teneri sorrisi,
E al tuo posto – che beffa! – ritroviamo
La cosa stessa che fuggimmo: l’Oggi.
Incontrarsi non è come lasciarsi
(frammento)
I
Incontrarsi non è come lasciarsi.
In quel momento si sente di più,
Più di quello che il mondo può sentire.
Il mio cuore è triste, e il tuo
È pieno di dubbi per me.
Un solo istante ha incatenato i liberi.
II
Quell’istante è passato, per sempre, come il lampo
Che muore nella luce – come fiocco
Di neve su un fiume, come raggio
Di sole sul mare,
Che la tenebra nasconde.
III
Quell’istante spiccato dal tempo
Fu il primo di una vita da dolore;
Impura gioia, coppa
D’illusione, troppo dolce, se pur vana!
Troppo dolce per essere
Un’altra volta mia.
IV
Dolcissime labbra, se il mio cuore
Avesse potuto celare
Che voi soffocavate la sua vita,
Non avreste impedito la morte
Che un cuore sincero cercava
Nella vostra amarissima rugiada.
V
………………………………………………..
………………………………………………..
………………………………………………..
Mi pare un prezzo esiguo
Per un istante trovato, e perduto!
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