“Manchester by the Sea”: il dolore silenzioso

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Lieve è il dolore che parla.
Il grande dolore è muto.
Seneca

Casey Affleck nel ruolo di Lee Chandler.

Esiste un dolore talmente profondo e dilaniante che non può esprimersi con le parole. Seneca sosteneva si trattasse di un “grande dolore muto“: non parla perché è indicibile, è senza fine e spesso conduce all’annientamento di sé. Lacrime asciutte, gelido silenzio, spalle curve e distacco dal mondo si fondono al paesaggio invernale di un quartiere anonimo di Boston. Tutto questo muto dolore è racchiuso nella postura e nello sguardo di Lee Chandler, interpretato magistralmente da Casey Affleck, nel lungometraggio indipendente “Manchester by the Sea“.
Manchester by the Sea” è uno di quei film che, se non fosse stato “scoperto” e candidato a sei premi Oscar, sarebbe probabilmente precipitato in quell’oblio di film invisibili di cui non parla nessuno a causa della mancanza di denaro sufficiente ad una buona distribuzione. Difficili da reperire, questi film stentano ad arrivare nelle sale cinematografiche e, qualora vi giungano, la programmazione non oltrepassa la settimana.
Dopo “Film Blu” di Krzysztof Kieślowski, in molti hanno tentato di descrivere un dolore che non riesce a trovar sfogo e pone una barriera insormontabile tra sé e il mondo esterno.


Il dolore silenzioso di chi vorrebbe scomparire ed essere come per incanto inghiottito dalla terra, indossa i panni di un uomo scontroso che si trascina indifferente a qualsiasi relazione sociale. Lavoratore instancabile tuttofare e di poche parole, Lee vive in un piccolo e buio seminterrato. La sera si ubriaca ed è pronto a far a botte per scuse banali e ad allontanarsi in fretta da qualsiasi donna voglia introdursi nella sua vita. La sua è una rabbia inesplosa, si esprime a monosillabi e incontra il suo momento catartico solo quando può aggredire violentemente altri uomini. Un modo per prendere a pugni quel fantasma di sé che si trascina stancamente in un’ esistenza scevra da ogni contatto umano, barricandosi in un ostinato silenzio. Il freddo cupo della vita di Lee è palpabile e ci coinvolge emotivamente.


Già dalle prime scene del film, non è difficile intuire che qualcosa di tremendamente tragico abbia segnato indelebilmente l’animo di quest’uomo in fuga da un nord in cui è costretto, suo malgrado, a far ritorno quando si spegne il fratello maggiore Joe (Kyle Chandler), che gli lascia un malandato peschereccio e l’affidamento dell’allampanato e chiacchierone nipote di sedici anni Patrick (l’esordiente Lucas Hedges). Costretto inevitabilmente ad affrontare i fantasmi di un passato che lo avevano separato dalla moglie Randi (Michelle Williams) e dalla comunità in cui era nato e cresciuto, la tragedia che aveva investito la propria vita riaffiora lentamente.
«È lui Lee Chandler?», sussurra la gente di Manchester by the Sea, quando lo vede aggirarsi con lo sguardo confuso nel suo paese natale. «Proprio lui», bisbiglia furtivamente chi conosce la tragedia che lo ha colpito e di cui a noi spettatori vengono mostrati dei flashback con un Lee Chandler inizialmente gioioso, pieno di vita e innamoratissimo della propria famiglia, fino a giungere a quella sequenza drammatica che gli cambierà il corso della vita.

Il film scorre con una calma innaturale, un paesaggio rigido come la postura di Lee e il grido solitario della sua anima. Non sentiamo l’esigenza di comprendere fino in fondo cosa gli sia accaduto, percepiamo profondamente quel dolore e l’enigma che accompagna le prime scene non sembra aver bisogno di spiegazioni. La nostra curiosità viene sedata dall’analisi delle conseguenze di un devastante dolore. E quando il segreto che ha sconvolto la vita dell’uomo viene rivelato, il film non subisce alcun cambiamento, non vacilla, non si affretta a giungere alla fine; continua a muoversi ancor più in profondità nel territorio emotivo di personaggi corposi immersi in un paesaggio marittimo liricamente idilliaco. Incurante di tutto, il protagonista evoca la figura della sua aggressiva ex moglie Randi (Michelle Williams) ed è costretto a confrontarsi col giovanissimo nipote Patrick che, nonostante la perdita del padre, non perde tempo ad indugiare sul lutto e si affretta a continuare il più presto possibile la sua vita fatta di hockey e di ragazze.

Da tempo non avevo avuto l’onore di assistere ad un cinema contemplativo che riesce a fondere gli abissi più estremi di un lutto con profusioni di umorismo giocoso ed esplosioni di rabbia. Scritto e diretto dal drammaturgo statunitense Kenneth Lonergan, il film mette a nudo senza mezzi termini una ferita troppo profonda per cicatrizzarsi, non fornisce illusioni, né dona alcun lieto fine, sfidando così il tipico canovaccio hollywoodiano in grado di consolare lo spettatore. Come in tutti i film d’autore degni di questo nome, il finale è aperto, lasciando così ampio spazio a libere interpretazioni.

Un film dall’impulso ritmico di sorprendente dolcezza, con numerose oscillazioni temporanee e grandi prestazioni recitative. E di quel blocco emozionale di Lee, che in alcuni momenti sembra dare l’impressione di venir meno e di liberarsi da quella buia voragine, possiamo solo ipotizzarne l’evoluzione. Nessuno può fornire risposte certe. Nemmeno lo stesso regista, che, attraverso lo sguardo di Lee, percorre il cammino tortuoso di un uomo che ha perso tutto e che in qualche modo vorrebbe sfuggire dall’oscurità che lo perseguita ogni giorno. Anche se nel profondo sa che forse è troppo tardi e la sua anima è ormai irrimediabilmente devastata. E lo si legge negli occhi di Lee/Affleck che, come una ferita aperta, reca inciso il dolore nel viso e nell’anima.
Di seguito il trailer di questo imperdibile capolavoro doloroso e tragico, con sprazzi di umorismo e di spensieratezza. Un film che può provocare la più grande risata e poi colpire con una forza drammatica travolgente. Proprio come la vita.

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