Hannah Arendt, filosofa e storica tedesca, con la sua nota espressione “banalità del male“, non stava cercando di descrivere un male che scaturisce da un’intenzione malvagia o da un odio feroce. Al contrario, la sua analisi poneva l’accento su un tipo di male molto più subdolo: quello che scaturisce dall’assenza di un pensiero morale, da un’obbedienza cieca e acritica, e da un conformismo quotidiano che ci impedisce di mettere in discussione lo stato delle cose. È un male che si annida nella routine, nell’accettazione passiva e nella mancanza di responsabilità personale.
Oggi, questa forma di male, che per sua natura è camaleontica, si manifesta attraverso nuove, sebbene familiari, espressioni. Non è più confinata a contesti estremi, ma è presente nel tessuto della nostra società con una “normalità” disarmante. Pensiamo, ad esempio, al funzionario che, rifugiandosi nella burocrazia, approva deportazioni disumane giustificandosi con un freddo “sono le regole“. La sua azione non è guidata da un desiderio di nuocere, ma da un’adesione incondizionata a procedure che privano l’atto di ogni significato etico.
Allo stesso modo, il politico che parla con disinvoltura di “danni collaterali” o, più semplicemente, tace dinnanzi a massacri di civili, come sta accadendo a Gaza, per mascherare e giustificare stragi inaccettabili mostra la stessa mancanza di pensiero critico ( o, più verosimilmente, ha degli affari con certe potenze intoccabili ), preferendo una retorica che anestetizza la coscienza collettiva. Anche il semplice cittadino gioca un ruolo fondamentale, accettando e persino invocando in nome di una presunta sicurezza o di un benessere personale la costruzione di muri, la pratica dei respingimenti e l’imposizione di embargo che affamano intere popolazioni, o rifugiandosi nel silenzio di fronte alle ingiustizie. Questo atteggiamento mette in luce una pericolosa tendenza a mettere il proprio comfort al di sopra dei diritti umani fondamentali.
Il lavoratore che progetta droni militari, adducendo la scusa “faccio solo il mio lavoro“, incarna perfettamente questa banalità. La sua professionalità, disgiunta da ogni riflessione etica sulle finalità del proprio operato, lo rende complice di potenziali violenze. E che dire del giornalista che racconta la guerra come se fosse un mero spettacolo, un intrattenimento privo di drammaticità e conseguenze reali? Un giornalista che, in modo asettico, narra massacri di civili senza batter ciglio e senza esprimere una benché minima opinione personale, è un esempio lampante della banalità del male.
Nel mercato globale, chi opta per il prezzo più basso, dimenticando le fatiche nascoste dietro un prodotto di massa, diventa parte di un sistema che sfrutta e allontana le persone.
In fondo, la banalità del male ci tocca tutti. È qualcosa che vive dentro di noi, soprattutto quando smettiamo di farci domande e ignoriamo il nostro senso critico e morale. Nei periodi di conflitto, con la propaganda incessante e una divisione crescente che sembra voler spazzare via ogni sfumatura di pensiero, la banalità del male si manifesta in modi chiari e pericolosi: continuare a vivere come se nulla fosse: ignorare il dolore degli altri, le ingiustizie che ci circondano, le violazioni dei diritti umani. Considerare normale l’indifferenza: accettare la passività come uno stato naturale, giustificando la mancanza di empatia e partecipazione. Spegnere la coscienza e dire: “Non mi riguarda” o “Non posso fare niente“. ovvero liberarsi dalla responsabilità, illudendosi di essere al di fuori delle conseguenze delle azioni collettive o della loro assenza.
Ciò che sta accadendo a Gaza è un triste e chiaro esempio di quanto il male sia diventato parte integrante della nostra vita quotidiana. Non si tratta solo di un conflitto geopolitico lontano, ma di uno specchio che riflette la nostra stessa indifferenza, la nostra tendenza ad abituarci all’orrore e a considerare l’inaccettabile come qualcosa di “normale”.
La verità è molto diversa: riguarda tutti noi. Sempre. Hannah Arendt ci aveva messo in guardia, sottolineando che la vera minaccia non è sempre quella del male assoluto, ma piuttosto quella più insidiosa che si presenta con le sembianze della normalità. Come la filosofa tedesca evidenziava, “Il più terribile era la normalità dell’uomo che sedeva lì, né pervertito né sadico, bensì terribilmente normale.” È in questa “terribile normalità” che si cela il pericolo più grande.
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