L’isolamento e l’ incomprensione hanno accompagnato da sempre la vita di tutti i grandi artisti, ma Vincent Van Gogh, pittore estremamente sensibile e dall’equilibrio mentale instabile, a differenza di altri, desidera con forza l’amicizia e, avendo un temperamento altruista, soffre maggiormente la propria solitudine. Il suo bisogno di essere amato si esprime in modo goffo e talvolta eccessivo, con la conseguenza di disorientare chi gli sta accanto. E giorno dopo giorno, sopraffatto dalla passione per l’arte, Vincent verrà isolato sempre di più, anche a causa delle sue crisi di nervi che spiazzano gli amici e i conoscenti e lo conducono ad una dolorosa solitudine che si riscontra in tutti i suoi scritti. Tuttavia, la solitudine di questo fervido genio creatore, non reca sempre con sé quel buio dell’anima riscontrabile nella sua vasta opera. Molte saranno infatti le creazioni luminose e dai colori vivaci che rispecchiano uno stato d’animo altalenante e pervaso da sprazzi di serenità.
Nato a Zundert, piccola cittadina olandese, il 30 marzo del 1853, gli viene dato il nome di un fratellino morto prima della sua nascita.
Vincent cresce in una famiglia calvinista molto severa e oppressa da problemi finanziari.
Non riesce a concludere le scuole superiori a causa delle difficoltà economiche della famiglia ed anche per i suoi pochi brillanti esiti scolastici.
Il suo pensiero ci è noto grazie ad un’intensa corrispondenza epistolare con il fratello Theo, amato profondamente da Vincent e, naturalmente, anche attraverso la visione delle sue opere dal valore inestimabile, esposte e ammirate nei musei di tutto il mondo.
È ormai storia vecchia sottolineare che quasi tutti i più brillanti artisti non sono mai stati compresi nel periodo storico in cui vissero e Vincent ne è la dimostrazione palese, visto che nella sua breve ma intensa vita, riuscì a vendere un solo quadro, “La vigna rossa” (1888), concludendo la sua vita in povertà. Ma non si dedica alla pittura per acquistare notorietà, e nemmeno opera su commissione. Non cerca una dignità economica che lo affranchi dalla miseria. Vincent Van Gogh, considerato il precursore dell’Espressionismo, comincia a dedicarsi alla pittura unicamente per una prepotente necessità interiore, sorta dal desiderio di imprimere sulla tela le sue prorompenti emozioni altalenanti che lo costringono a ricoveri continui per depressione e angoscia.
Il tormento della sua anima è visibile nella bellezza dei suoi dipinti, in quei rapidi tocchi di pennello, nati dall’impulso irrefrenabile di trasmettere un’immagine alla propria percezione del mondo. Un mondo che ama moltissimo, nonostante venga deriso e umiliato continuamente dalla maggioranza della gente che lo ritiene solamente un povero malato di mente con velleitarie aspirazioni artistiche.
La sua passione per l’arte nasce quando comincia a lavorare presso la società di mercanti d’arte Goupil & Co. Il lavoro che svolge, infatti, lo costringe ad approfondire tutte le tematiche inerenti l’arte e i continui spostamenti arricchiranno la sua cultura. Dall’Aia a Bruxelles e successivamente a Londra, gli anni della sua vita compresi tra il 1869 e il 1875, vedono il giovane Vincent respirare l’aria innovativa delle grandi città europee.
Trascorre alcuni giorni a Parigi e rimane profondamente colpito dalla vivacità artistica della città.
Comincia a disegnare, ma di tali schizzi, interessanti per comprendere il suo primo approccio artistico, ne è rimasto solo uno in pessime condizioni.
A Londra s’innamora perdutamente, non ricambiato, della figlia della sua padrona di casa. Tale delusione d’amore rivela già il suo temperamento fragile, portato spesso a continue depressioni.
In preda ad una crisi mistica, lascia il lavoro e si dedica a fare il predicatore tra i lavoratori di una miniera belga del Borinage. Il suo animo sensibile non è indifferente alla sofferenza degli umili e proprio in quel periodo comincia a dipingere i suoi primi quadri da autodidatta. L’esigenza di ritrarre l’esistenza delle persone indigenti si rivela nelle sue prime opere, cupe e volte a rappresentare i derelitti della società di cui sente l’intima vicinanza. E quando la sua attività di predicatore glielo consente, si dedica al disegno, ritraendo i visi, le azioni e i rari momenti di riposo di quella sofferente umanità.
A causa del suo radicalismo sociale viene licenziato dalle autorità religiose.
Torna in Olanda nel 1881 e, grazie all’aiuto economico del fratello Theo, prende lezioni di pittura. Nello stesso anno s’innamora di una cugina, appena rimasta vedova, ma non viene ricambiato.
Lascia la casa dei genitori perché insofferente all’aria che si respira nella sua famiglia e si stabilisce all’Aia. S’innamora di una prostituta incinta, Sien Hoornik, ma frustrato dalla propria incapacità di riuscire a redimerla, riprenderà i suoi vagabondaggi.

“Sorrow”, 1882. La donna del ritratto è la prostituta Sien Hoornik con cui Vincent Van Gogh vive una relazione difficile. A 54 anni, la donna si suiciderà buttandosi nella Schelda.
Dopo essersi trasferito a Nuenen, comincia a rappresentare l’umanità sofferta degli umili con viva e sentita partecipazione. Il suo modo di vedere il mondo non è mai distaccato e manifesta apertamente l’animo compassionevole dell’artista, come si può notare in una delle sue più famose opere iniziali, “I mangiatori di patate“, realizzata nel 1885.
Il quadro rappresenta una povera famiglia riunita attorno ad un tavolo, durante la cena. I volti delle persone ritratte sono molto marcati e, in quegli abiti lisi e deformati e nelle mani nodose di chi lavora quotidianamente la terra, compare tutta la tristezza dell’artista, il cui animo denso di profonda umanità lo induce ad usare tonalità scure e pastose con un aspro contrasto di luci e ombre che lo distaccano dal realismo dell’epoca, lasciando apertamente trasparire i suoi sentimenti.
Nel 1886, sconvolto dalla dipartita del padre, si trasferisce a Parigi dal fratello Theo, con cui i rapporti non sono sempre facili a causa dell’irascibilità e degli sbalzi d’umore del pittore.
Respinto dall’Accademia d’Arte di Anversa ed anche dalle donne, continua a frequentare prostitute.
A Parigi stringe amicizia con Paul Gauguin, conosce i pittori impressionisti e subisce il fascino della bellezza e della vivacità dei colori da loro usati. Da non dimenticare l’interesse dell’artista per l’arte giapponese di cui parlerà alla sorella Wil: « le giapponeserie sono il mezzo più pratico per arrivare a capire la direzione attuale della pittura colorata e chiara». Ne apprezza la lezione e sarà proprio lo studio di una nuova luce a spingerlo verso il sud della Francia, precisamente ad Arles.
La tecnica che utilizzerà da quel momento è molto personale, non segue nessuno degli schemi delle correnti alla moda in quel periodo. L’arte, secondo Vincent, deve sempre esprimere solo quello che si possiede «dentro la mente e il cuore».
In attesa che Gauguin lo raggiunga ad Arles, accompagnato dal sogno che possa realizzarsi una serena collaborazione tra i due artisti, Vincent si dedica alla pittura a tempo pieno creando molte opere che mostrano la maturazione del suo stile. Nasce in quel periodo uno dei suoi dipinti più famosi, “La camera di Van Gogh“, (1888) che raffigura l’unico angolo intimo che l’artista abbia mai posseduto, una stanza tutta per sé al numero 2 di place Lamartine. Arredare la sua camera non sarà impresa facile perché non vi sono commercianti disposti ad affittare o a dare in credito dei mobili ad un artista sconosciuto e piuttosto stravagante. Grazie al fratello, riesce ad acquistare qualche mobile di fondamentale importanza e s’immerge nella pittura, aspettando Gauguin.
“La camera di Van Gogh“, dipinto inviato alla madre come testimonianza di questo periodo sereno, è dominato da una calma immobile la cui prospettiva viene stravolta: il letto non è allineato alla parete, le sedie sembrano essere viste dall’alto ed il resto degli arredi viene posto su un altro piano prospettico.
In modo particolare in questo quadro si denota la sensibilità cromatica di Vincent che anticiperà la rivoluzione espressionista grazie alla potenza vibrante del colore che sottolinea l’alterazione delle linee prospettiche suggerendo così il simbolismo dello stesso colore, caratteristica fondamentale di quel movimento. Fatta eccezione per la macchia rossa che raffigura la coperta, nel quadro prevalgono i giochi di blu ed i giochi di giallo. Così spiegherà in una lettera alla sorella l’utilizzo di quella tonalità che «doveva suggerire qui il riposo. La vista del quadro inoltre deve riposare la testa o, meglio l’immaginazione». I toni delle prime due versioni di questo quadro sono infatti più tenui e solamente nella copia conservata al Musée d’Orsay di Parigi, l’artista carica ancor più i colori.
La sua estenuante ricerca della luce lo porta ad utilizzare il giallo per rischiarare le sue tele. Ore, giorni e mesi in esercizi di colore con lo scopo di produrre un nuovo giallo, quel “giallo” di Van Gogh che lo renderà noto in tutto il mondo. Numerose saranno le versioni dei “Girasoli“, durante il periodo estivo, e, in autunno, riuscirà a trovare anche il suo blu. È questo l’unico periodo sereno del pittore e il ritratto della sua camera rispecchia un sentimento di attesa e nello stesso tempo di speranza. Nell’allegra luminosità di tale dipinto si traduce la ritrovata, seppur momentanea, serenità di Van Gogh.
Gli anni trascorsi ad Arles sono drammatici, ma estremamente produttivi. Il suo animo molto vulnerabile, che lo porta a continue crisi depressive, lo induce, durante una delle sue tragiche crisi di nervi, a litigare con Gauguin, a recidersi il lobo di un orecchio come autopunizione e a donarlo, successivamente, ad una prostituta del paese.
Ma proprio ad Arles crea i suoi più grandi capolavori in cui accentua ulteriormente le linee di contorno e stende il colore in ampie campiture piatte. Dalle tonalità terrose dei primi dipinti, Vincent giunge ad un’ineguagliabile sintesi che inserisce colori accecanti su una campeggiante e immensa oscurità.
Nel gennaio del 1890 sarà acquistata a Parigi, per quattrocento franchi, “La vigna rossa“, prima e unica opera venduta dall’artista.
Dopo l’insano gesto di automutilazione, Van Gogh viene ricoverato all’ospedale di Arles e, conscio della sua instabilità psichica, si fa poi trasferire all’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, dove realizza alcuni dei suoi capolavori assoluti, tra cui “Ramo di mandorlo fiorito“, gli “Iris” e la “Notte stellata“. Dopo il ricovero torna a Parigi dal fratello. Ma la sua anima tormentata non riesce a farlo permanere a lungo in quella città, da lui un tempo amata, e il 21 maggio del 1890 si trasferisce in un paesino vicino la capitale, Auvers-sur-Oise, dove si prenderà cura di lui Paul Gachet, un medico appassionato di arte.
Di quel periodo bisogna ricordare il “Ritratto del dottor Gachet“, del 1890, in cui si nota l’uso del colore in forma espressiva che lo distanzia dagli impressionisti, famosi per la stesura del colore “a virgola“. Van Gogh, infatti, predilige una tecnica a colpi di pennellate di un certo spessore, spezzate e punteggiate, che ne associano lo stile a quello post impressionista.
Ciò che maggiormente colpisce di tale opera è quel punto di vista dall’alto che rende l’immagine ritratta come se sia protesa attentamente verso il pittore.
E non solo questo particolare rende il dipinto innovativo e fortemente coinvolgente.
La figura del dottor Gachet, un medico molto caro all’artista per l’amicizia che gli dona anche nei momenti più difficili della sua vita, non è un’immagine distaccata da chi lo sta ritraendo; sembra interagire con Van Gogh e in quello sguardo chiaro e profondo, in posizione di vero amico, pronto ad ascoltare anche i suoi segreti più reconditi, si rivela l’affetto del medico nei confronti dell’artista.
Di lui così Vincent parla al fratello Theo: «Mi sembra malato e sfinito come te e me, è più anziano e ha perduto anni fa sua moglie, ma è un grande dottore e il suo mestiere e la sua fede lo sostengono. ⌊…⌋ Attualmente niente, assolutamente niente mi tiene qui, salvo Gauchet».
La gentilezza e la nobiltà d’animo del medico unita ad una profonda sofferenza evidenziano la sensibilità di Van Gogh nel cogliere tutte le sfumature umane.
Il blu del fondo contrasta con i colori chiari adoperati dal pittore per accentuare la luminosità interiore del suo caro amico che, grande appassionato d’arte, ammirerà profondamente quel ritratto.
Durante la sua permanenza ad Auvers, Vincent si dedicherà allo studio di una nuova tonalità di blu che si può notare ben notare nel dipinto “La Chiesa di Auvers“, opera molto differente dalla luminosità provenzale. I paesaggi diventeranno più tetri e le pennellate più dense.
La solitudine attanaglia il pittore; il fratello Theo, investito da gravi difficoltà economiche, gli chiede di contenere le spese. Cosa sia accaduto durante un pranzo che si svolge nella casa del fratello, a Pigalle, è avvolto dal mistero. Resterà solamente un appunto che Vincent scriverà dopo aver lasciato improvvisamente Pigalle per tornare ad Auvers-sur-Oise: «Una volta tornato qui, mi sono sentito ancora più triste. La mia stessa vita è minacciata alla radice…»
Poco prima della tragica morte, dipinge un paesaggio di immensa potenza espressiva che sembra presagire il suo imminente suicidio. L’opera in questione è “Campo di grano con volo di corvi” del 1890, che il regista giapponese Akira Kurosawa inserisce nel suo capolavoro cinematografico “Sogni”.
In quell’episodio, difficilmente destinato a scivolare nell’oblìo della nostra mente, viene rappresentato un pittore che, emozionato dalla bellezza dei dipinti di quell’artista, s’immerge nei quadri di Van Gogh.
Ed ecco l’opera che conclude la tragica e infelice esistenza di questo ineguagliabile artista.
Una tempesta sembra abbattersi sulla sua vita.
Un volo confuso di corvi.
Lo stile, ormai inconfondibile del maestro, appare in tutte le sue pennellate dense e pastose.
E quei tre sentieri che si dileguano all’orizzonte in cui si avverte il vento che scuote le spighe di grano appaiono un presagio della scelta che il pittore sta per compiere.
Disperazione e solitudine agitano una tela apparentemente immobile.
Quella di un genio incompreso che a causa della sua eccessiva sensibilità riesce ad avvertire l’infelicità e la bellezza di questo mondo, il cui peso, per le anime eccessivamente impressionabili, risulta, in momenti di lucida follia, troppo difficile da sostenere.
Come tutti i suicidi Van Gogh riesce a cogliere quelle sfumature sconosciute ai più. Ama profondamente la vita al punto tale da non riuscire a sopportare il dolore della sua fragilità emotiva e si uccide con un colpo di rivoltella il 29 luglio del 1890.
Emarginato da tutti, anche dai suoi parenti, spaventati da quello sguardo infuocato e da quei continui scatti d’ira, si spegne uno dei più grandi pittori del mondo a cui rendo omaggio con alcune foto delle sue opere e brani di pensieri scritti all’amato fratello Theo che aiutano a comprendere la sua anima appassionata e appassionante.
Theo morirà l’anno dopo e le sue ceneri saranno trasferite ad Auvers nel 1914. Da quell’anno, i due fratelli, da sempre inseparabili, riposano l’uno accanto all’altro.
Antonin Artaud ha definito il pittore “un suicidato della società“.
Van Gogh, così come altri noti e meno noti suicidi, costretti al silenzio ed etichettati come folli per impedire che possano rivelare “verità pericolose”, o forse, scomode, diventa per lo scrittore il simbolo di quell’umanità dolente incapace di adattarsi ad una società violenta che opprime le sensibilità più acute. Così scrive a tal riguardo Artaud, che mise sotto accusa anche la psichiatria: « Van Gogh […] non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto chi era quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò». Un punto di vista che ancora oggi scatena un dibattito sospeso sulla personalità di questo misterioso pittore.
Guardare alle stelle mi fa sempre sognare, semplicemente come quando sogno sui punti neri che rappresentano le città e i villaggi in una mappa. Perché, mi chiedo, i puntini luccicanti del cielo non dovrebbero essere accessibili quanto i puntini neri sulla carta della Francia?
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Uno potrebbe avere un cuore in fiamme nella propria anima e nessuno che ci si sieda accanto per scaldarsi.
I passanti vedono solo una traccia di fumo e continuano per la loro strada.
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Sento in me una tal forza creativa che sono sicuro verrà il giorno in cui sarò in grado di produrre regolarmente ogni giorno cose buone. Passo di rado una giornata senza far niente, ma ciò che faccio non è ancora quello che vorrei. ⌊…⌋ In ogni caso, sento che la pittura ridesterà ancora, indirettamente, qualcosa in me.
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Io penso spesso che la notte sia più viva e più riccamente colorata del giorno.
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Mi addolora tanto che i miei rapporti con i pittori siano così freddi e che, come ti ho già scritto prima, non ci si possa sedere amichevolmente tutti insieme intorno alla stufa, per esempio in una giornata piovosa come questa, per guardare dei disegni o delle stampe, e incoraggiarci a vicenda.
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Non bisogna giudicare il buon Dio da questo mondo, perché è uno schizzo che gli è venuto male.
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Siamo tanto attaccati a questa vecchia vita perché accanto ai momenti di tristezza, abbiamo anche momenti di gioia in cui anima e cuore esultano – come l’allodola che non può fare a meno di cantare al mattino, anche se l’anima talvolta trema in noi, piena di timori.
Non è tanto il linguaggio del pittore che si deve sentire, quanto quello della natura.
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Il mondo non m’interessa se non per il fatto che ho un debito verso di esso, e anche il dovere, dato che mi ci sono aggirato per trent’anni, di lasciargli come segno di gratitudine alcuni ricordi sotto forma di disegni o di quadri, non eseguiti per compiacere a questa o a quella tendenza, ma per esprimere un sentimento umano sincero.
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⌊Riferendosi al quadro I mangiatori di patate⌋
Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole.
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Non vivo per me, ma per la generazione che verrà.
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Più divento dissipato, malato, vaso rotto, più io divento artista, creatore… con quanta minor fatica si sarebbe potuto vivere la vita, invece di fare dell’arte.
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Bisogna aver sempre presente la meta da raggiungere e che la vittoria ottenuta dopo un’intera vita di laboriosa fatica vale più di un facile successo. Chiunque viva sinceramente e affronti senza piegarsi dolori e delusioni è assai più degno di chi ha sempre avuto il vento favorevole, non conoscendo altro che una relativa prosperità.
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Il dipinto “L’italiana” sembra sia dedicato ad Agostina Segatori, una donna con cui Vincent Van Gogh intrattiene una breve relazione. Ben evidente in tale ritratto l’influenza dell’Impressionismo e quella del Puntinismo nei due bordi a frange della tela.
C’è fannullone e fannullone. C’è chi è fannullone per pigrizia o per mollezza di carattere, per la bassezza della sua natura, e tu puoi prendermi per uno di quelli. Poi c’è l’altro tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell’impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che gli è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d’istinto: eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d’essere! So che potrei essere un uomo completamente diverso! A cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C’è qualcosa in me, che è dunque? Questo è un tipo tutto diverso di fannullone, se vuoi puoi considerarmi tale. Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe e dice a se stesso: “gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata”, e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore. “Ecco un fannullone” dice un altro uccello che passa di là, “quello è come uno che vive di rendita”. Intanto il prigioniero continua a vivere e non muore, nulla traspare di quello che prova, sta bene e il raggio di sole riesce a rallegrarlo. Ma arriva il tempo della migrazione. Accessi di malinconia – ma i ragazzi che lo curano nella sua gabbia si dicono che ha tutto ciò che può desiderare – ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità. “Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve! Ah, di grazia, la libertà, essere un uccello come tutti gli altri!”. Quel tipo di fannullone è come quell’uccello fannullone. E gli uomini si trovano spesso nell’impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile… Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede “Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l’eternità?”. Sai tu ciò che fa sparire questa prigione? È un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente. Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso nella morte. Ma dove rinasce la simpatia, lì rinasce anche la vita.
***
Se non hai un cane – almeno uno – non c’è necessariamente qualcosa di sbagliato in te, ma ci può essere qualcosa di sbagliato nella tua vita.
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Volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca. Nel caso dovessi sopravvivere ci riproverò.
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Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole – qualcuno che non ha posizione sociale né potrà averne mai una; in breve, l’infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno.
***
Non posso cambiare il fatto che i miei quadri non vendono. Ma verrà il giorno in cui la gente riconoscerà che valgono più del valore dei colori usati nel quadro.
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Siamo tanto attaccati a questa vecchia vita perché accanto ai momenti di tristezza, abbiamo anche momenti di gioia in cui anima e cuore esultano – come l’allodola che non può fare a meno di cantare al mattino, anche se l’anima talvolta trema in noi, piena di timori.
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Devo prevenirti che tutti troveranno che io lavoro troppo in fretta. Non ci credere affatto. Non è forse l’emozione, la sincerità del sentimento della natura che ci guida? E se queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgersi che si lavora, quando a volte le pennellate vengono con un seguito e dei rapporti fra loro come le parole in un discorso o in una lettera, bisogna allora ricordarsi che non è sempre stato così e che nell’avvenire ci saranno pure, purtroppo, giorni grevi, senza ispirazione. Bisogna perciò battere il ferro mentre è caldo e mettere da parte le sbarre fucinate.
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⌊Riferendosi ad Arles⌋ Adesso abbiamo qui un calore stupendo, intensissimo, senza vento, che fa proprio al caso mio. Un sole, una luce che in mancanza di meglio non posso che chiamare gialla, gialla zolfo pallido, limone oro pallido. Com’è bello il giallo! E come vedrò meglio il Nord!
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Ciò che differenzia da prima che s’innamorasse una persona innamorata non differisce da ciò che distingue una lampada spenta da quando invece è accesa: prima esisteva solo un’ottima lampada, ma ora in più diffonde la luce (e svolge così la sua vera funzione).
***

In questo dipinto Vincent Van Gogh ritrae se stesso con l’orecchio bendato, riferendosi all’episodio di autoimputazione dopo la lite con Paul Gauguin.
Ah, mio caro fratello, a volte so talmente bene quello che voglio. Perciò nella vita e nella pittura posso benissimo fare a meno del buon Dio, ma non posso, nella mia sofferenza, fare a meno di qualcosa di più grande di me e che è la mia vita: la potenza di creare. Che se, frustrato fisicamente da questa potenza, uno cerca di creare pensieri invece di figli, resta ancora nell’umanità, nonostante tutto. In un quadro io vorrei dire qualcosa di consolante come una musica. Vorrei dipingere degli uomini o delle donne con un non so che di eterno, il cui simbolo era una volta il nimbo, e che noi cerchiamo mediante l’irradiazione di per se stessa, mediante la vibrazione dei nostri colori.
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Una cosa resta – la fede – si sente istintivamente, ché moltissimo si cambia e che tutto si cambierà: siamo nell’ultimo quarto di un secolo che nuovamente finirà con una grandiosa rivoluzione. Ma anche supponendo che alla fine della nostra vita noi ne vedremo l’inizio, sicuramente non vedremo i tempi migliori dell’aria pura e del rinnovamento di tutta la società dopo questa grande tempesta.
***

“La ronda dei carcerati”, realizzata nel manicomio di Saint-Rémy, ben riflette l’inquietudine di Vincent Van Gogh nei confronti di quell’opprimente ricovero. Nella scena ritratta, indubbiamente claustrofobica, ci colpisce in modo particolare il prigioniero al centro che rivolge il suo sguardo a noi osservatori, rendendoci partecipi del dramma da lui vissuto.
Più ci penso, più mi rendo conto che non c’è nulla di più veramente artistico che amare gli altri.
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La tua professione non è ciò che ti fa portare a casa la tua paga. La tua professione è ciò che sei stato messo al mondo a svolgere con tale passione e intensità che diventa spirituale nella sua chiamata.
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Mi colpisce sempre, ed è molto curioso, che, ogni volta che vediamo l’immagine dell’indescrivibile e impronunciabile desolazione della solitudine, della povertà e della miseria, l’ultima ed estrema delle cose che ci viene in mente è il pensiero di Dio.
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Non soffocare la tua ispirazione e la tua immaginazione; non diventare schiavo dei tuoi modelli.
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Sogno di dipingere, poi dipingo i miei sogni.
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Ascolti la voce silente della natura ed a volte la natura ti sembrerà un poco meno ostile, finché non ti diviene amica. Allora anche il tuo lavoro sarà colmo di bellezza e di calma.
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Il modo migliore di amare la vita è amare molte cose.
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Vedo ovunque nella natura, ad esempio negli alberi, capacità d’espressione e un’anima.
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Faccio sempre ciò che non so fare, per imparare come va fatto.
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Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali, per quanto maestose e imponenti siano.
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Nella mia febbre cerebrale o follia, non so come chiamarla, i miei pensieri hanno navigato molti mari.
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Nella società attuale noi artisti siamo l’anfora rotta.
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Io penso di vedere qualcosa di più profondo, più infinito, più eterno dell’oceano nell’espressione degli occhi di un bambino piccolo quando si sveglia alla mattina e mormora o ride perché vede il sole splendere sulla sua culla.
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Soffrire senza lamentarci è l’unica lezione che dobbiamo imparare in questa vita.
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La tristezza durerà per sempre. ⌊Biglietto scritto prima di suicidarsi⌋
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Se quel che si fa si apre sull’infinito, se si vede che il lavoro ha una sua ragion d’essere e che continua al di là, si lavora più serenamente.
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I pescatori sanno che il mare è pericoloso e la tempesta terribile, ma non hanno mai trovato questi pericoli, una ragione sufficiente per restare a riva.
***
Le leggi dei colori sono inesprimibilmente belle, proprio perché non sono dovute al caso.
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Articolo bellissimo! Così dovrebbe essere studiata la storia dell’arte nelle scuole. L’analisi delle opere dovrebbe servire ad aprire dibattiti su temi esistenziali sempre presenti nell’uomo, sulla difficoltà di alcuni esseri umani di adattarsi alla società e il rifugio nell’arte, che riesce ad estraniare l’uomo dalle miserie quotidiane.
Pochi sono gli insegnanti in grado di trasmettere amore per materie umanistiche di fondamentale importanza per capire se stessi e il mondo!
Tristemente vero.
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[…] nella formazione artistica costituisce la loro forza innovativa. Impossibile non pensare a Van Gogh o a Gauguin quando si parla di Cézanne e se in ogni rivoluzione ognuno segue […]
[…] Marzo è un maschiaccio con i capelli arruffati, un sorriso malizioso, il fango nelle scarpe e una risata nella sua voce.– Hal Borland(“Un paio di scarpe” di Vincent Van Gogh) […]
È meraviglioso adoro Van Gogh Grazie una bellissima esperienza
Grazie a te, anch’io adoro Van Gogh.