Molière, uno dei più grandi autori di commedie della civiltà moderna, dedica tutta la sua vita al teatro realizzando capolavori comici con uno stile innovativo che sfugge alle convenzioni del periodo, mostrando, attraverso uno stile realistico ed un approfondimento psicologico dei personaggi, le nevrosi degli esseri umani e la sua aspra critica nei confronti della morale dell’epoca. Le sue opere suscitano spesso sdegno e violente polemiche, ma godono dell’ammirazione e della protezione del giovane re Luigi XIV, detto il “Re Sole“. Incoraggiato dalla stima di quest’ultimo, sorta dopo la visione della sua farsa “Le Preziose ridicole” (1659), Moliére compone, in poco più di tredici anni, una trentina di commedie in cui alterna opere di profondo impegno morale, pervase dal suo irresistibile anticonformismo, a geniali giochi teatrali di tipo farsesco la cui comicità scenica non li priva di acute riflessioni su una società grottesca che nel teatro riesce a trovare la sua massima espressione.
La sua sorprendente abilità nel deridere usi e costumi del periodo, non risparmia nessun membro dell’intera piramide sociale, ma tralascia il vertice, ovvero il sovrano, visto come un fenomeno comparabile solo a quello della natura e quindi non soggetto a critiche.
La sua è una satira che non si limita a cogliere l’aspetto ridicolo dei costumi del suo periodo, ma analizza e ritrae l’uomo nella sua universalità, così come solo coloro che rientrano tra i grandi della letteratura riescono a fare. Apprende e fa sua la lezione dell’arte poetica degli antichi, non colpisce il singolo, ma i difetti riscontrabili nella maggioranza degli esseri umani, difetti che conducono all’infelicità l’uomo e i suoi simili; non bisogna mai dimenticare che nei suoi ritratti il grottesco conduce sempre al dramma in un mondo in cui assistiamo a commedie drammatiche ogni giorno e, talvolta, senza nemmeno rendercene conto, ne siamo coinvolti. Il riso suscitato da Moliére riesce a scalfire le pseudo certezze dello spettatore. Chi non trova qualcosa di sé in quelle piccinerie, manie o vizi messi in risalto dalla sue commedie? Volenti o nolenti, siamo spesso sopraffatti, e in taluni casi dominati, o in guerra perenne, con debolezze tipiche della nostra natura: ipocrisia, supponenza, gelosia, adulazione, avarizia, conformismo, vigliaccheria.
Il mondo ideale affollato da eroi in contrapposizione ai cosiddetti “cattivi” non trova spazio alcuno nella commedia di Moliére: il grande autore francese mette in scena l’uomo per quello che realmente è, con le sue fragilità e le sue imperfezioni. Nasce così una commedia amara e divertente nello stesso tempo che vede in particolar modo mettere a nudo i vizi della borghesia, per poter giungere così al “juste-milieu“, ovvero ad una morale equilibrata in cui l’uomo comune possa ritrovarsi. Qualsiasi comportamento eccessivo, maniacale ed estremista viene ferocemente criticato attraverso la rappresentazione di personaggi tragici, condannati inesorabilmente alla solitudine e alla disperazione, ma nello stesso tempo le sue commedie non sono pretenziose, non vogliono destabilizzare lo spettatore in modo esagerato, vogliono solo farlo ridere e riflettere. La sua è una raffinata poetica del riso volta a conoscere l’uomo. E per attuare tale scopo, Molière si avvale dei tradizionali accorgimenti comici che includono gli equivoci e l’utilizzo di eleganti e sottili giochi di lingua.
Nato a Parigi il 15 gennaio del 1622 da una ricca famiglia di mercanti, Moliére, all’anagrafe Jean-Baptiste Poquelin, resta orfano di madre ad appena dieci anni. L’anno dopo il padre convola a nuove nozze, ma anche la seconda moglie morirà pochi anni dopo il matrimonio. L’infanzia di Jean-Baptiste, afflitta da dolorose perdite, potrebbe spiegare quella malinconia che accompagnerà per sempre la sua vita e la quasi totale mancanza di figure materne nella sua produzione teatrale. Decisiva però nella sua formazione è la presenza del nonno materno, appassionato di teatro, che lo porta spesso con sé ad assistere a spettacoli di comici italiani e alle rappresentazioni delle tragedie dei comédien.
Il padre, grazie al suo pregiato lavoro, ottiene la carica di “tappezziere del re” che gli consente di potersi recare alla Corte. Ciò gli permette anche di far compiere gli studi classici al figlio al Collegio di Clermont, gestito dai gesuiti e frequentato dai figli delle migliori famiglie parigine.
Qui subisce l’influenza dello scetticismo filosofico di François de La Mothe Le Vayer, uno dei principali rappresentanti del cosiddetto pensiero libertino nel XVII secolo, e mostra la sua passione per il razionalismo naturalistico di cui ne è prova la sua traduzione giovanile del poema “De Rerum Natura” di Lucrezio.
Prosegue brillantemente gli studi alla Facoltà di Diritto di Orléans e consegue la licenza di avvocato. Ma già da giovanissimo manifesta la sua vocazione per il teatro e con alcuni giovani attori fonda la compagnia “L’Illustre Théâtre“, divenendone il capocomico. Dopo appena due anni, segnati da insuccessi e indebitamenti, il gruppo teatrale si trova costretto a sciogliersi nel 1645 e il giovane Jean-Baptiste, che ha già assunto lo pseudonimo di Moliére (dal nome di una cittadina della Francia meridionale), viene incarcerato a causa dei debiti contratti. Grazie all’intervento del padre può lasciare il carcere e, nonostante la sconfitta subita, continua a seguire la propria passione. Insieme a Madeleine Béjart, con cui intrattiene una relazione e di cui sposerà poi la figlia Armande, s’inserisce nella compagnia dell’illustre comico Dufresne che ben presto riesce a rilevare, e, in qualità di capocomico, trascorre quasi una quindicina di anni da errante, recitando in diversi teatri francesi e mostrando già, tra il 1655 e il 1656, il suo desiderio di scrivere. Compone due commedie in versi, “Lo sventurato” e “Il dispetto amoroso“, opere ancora immature e di poco rilievo.
La compagnia riscuote un discreto successo e Moliére comincia a distinguersi per le sue abilità di attore nelle brevi farse da egli stesso composte e che è d’uso a quei tempi recitare dopo la rappresentazione di una tragedia. Una di queste, “Il medico volante“, messa in scena dal 1645, viene rappresentata tutt’ora per la sua travolgente comicità e per quella peculiarità del nostro autore di mettere in ridicolo i medici pedanti e la sua ostilità nei confronti della medicina, tema ricorrente in quasi tutte le sue opere.
Dopo un soggiorno a Rouen, nel 1658 fa ritorno a Parigi con la sua compagnia e nello stesso anno recita davanti al Re Sole che resta visibilmente colpito solo dalla farsa scritta da Moliére “Il dottore amoroso“.
Lo scarso successo conseguito con la rappresentazione delle tragedie, rende il drammaturgo consapevole della sua innata capacità di dare il meglio solo nella commedia. La sua opera “Le preziose ridicole“, messa in scena nel 1659, conquista le simpatie del re, nonostante le violente critiche suscitate per aver ridicolizzato certe dame provinciali, i cui atteggiamenti artificiosi, facilmente riconoscibili, provocano la nascita di situazioni comiche esilaranti che mettono a nudo l’arrivismo e il linguaggio affettato di donnette che, pur di entrare nell’alta società, rinunciano alla spontaneità del sentimento. Da quel modo di parlare, che mira solamente ad una ricercatezza di termini fine a se stessa e mera espressione di mancanza di cultura, nasce il termine “preziosismo“.
Grazie ad un’arguta prefazione, Moliére riesce a difendere il significato della sua opera. Il crescente favore del pubblico suscita l’invidia dei commediografi tradizionali, cultori di un teatro artificioso e talvolta volgarmente buffonesco che scatenano la loro ira in diverse occasioni ed in particolar modo quando viene messa in scena il suo capolavoro “La scuola delle mogli“, il 26 dicembre del 1662 nel Teatro del Palais-Royal a Parigi. Ma i suoi detrattori non tengono in considerazione lo spessore culturale e il senso dell’umorismo del già celebre autore che risponde a certe provocazioni con un’altra commedia, “La critica della Scuola delle mogli“, testo molto interessante in cui, oltre a mettere in ridicolo coloro che con tale ardore spendono il loro tempo a criticarlo, espone i principi della sua arte con notevole efficacia tanto da esser considerato il simbolo dell’evoluzione di Moliére e del suo distacco dal teatro tradizionale. D’altronde, già nella commedia “La scuola delle mogli“, non vi è più alcuna traccia di personaggi buoni in contrasto con i cattivi e dei numerosi cliché e trucchi teatrali che caratterizzano un teatro ormai destinato ad eclissarsi, lasciando spazio alla profonda verità psicologica da attingere solo nella vita reale. Con Moliére nasce così il nuovo teatro realistico che del tradizionale serba solamente un lieto fine quasi forzato e inverosimile nel contesto del racconto.
“La scuola delle mogli” è ritenuta da molti studiosi in parte autobiografica; dalla relazione di Mòliere con la giovane attrice e sua vecchia amica Madelaine Bèjart era nata una figlia e ancora oggi non si sa con certezza se l’autore abbia sposato la figlia, o la sorella di Madelaine Bèjart, di appena vent’anni. Secondo studi recenti la ragazza non era la sorella di Madelaine, ma la figlia avuta circa vent’anni prima da un nobile, il Duc de Modéne. Naturalmente i suoi rivali lo accusano di essersi sposato con la figlia e paragonano l’anziano Arnolfo, patetico protagonista della commedia al drammaturgo, che sposa nello stesso anno in cui viene messa in scena la commedia la giovane sorella o figlia di Madelaine.
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L’opera di Moliére descrive con un geniale intreccio comico il comportamento maniacale di Arnolfo, un uomo tradito dalla moglie che adotta una bambina e la educa in modo che non s’innamori di nessuno per poterla poi sposare. Non sono assenti le critiche verso i matrimoni combinati per lo più dai genitori e il modo tradizionale di educare le ragazze, evitando loro di far conoscere la realtà della vita. In quel torbido ambiente sboccia l’amore tra due giovani che riesce a trionfare su tutti gli ostacoli frapposti.
Sotto processo la morale dell’epoca in una commedia che desta così tanto scandalo da rendere difficile la pubblicazione di altre opere dell’autore, nonostante il sostegno di cui gode presso Luigi XIV.
Un altro lavoro degno di attenzione è “Il Tartufo“, scritto e rappresentato per la prima volta nel 1664 e oggetto anch’esso di violenti attacchi da parte dei conservatori e del clero. Ricca di scene di irresistibile comicità, “Il Tartufo” è un’opera di grande portata morale che sbeffeggia la società nobiliare del ‘600 e l’ipocrisia di chi vive sotto la maschera della devozione religiosa per potersene avvalere nell’ordire le sue trame criminali. Nel corso dell’opera Moliére spiega attraverso le parole di uno dei personaggi il suo ideale spirituale, moderatamente umano, precorrendo così quella religione naturale sorta poi con il nome di deismo e divulgata dai filosofi illuministi. L’opera, oggi considerata un vero e proprio dramma borghese, viene presentata dallo stesso Moliére al re con queste parole: «Il compito della commedia è quello di correggere gli uomini divertendoli, presentando i vizi e i difetti in modo anche esagerato».
Al re la commedia del zelante bigotto Tartufo che sconvolge la vita della famiglia in cui si introduce, pronto a spogliarla di tutti i suoi beni, se non fosse per l’intervento del sovrano, piace molto. Ma a causa delle pressioni di Anna d’Austria e dell’arcivescovo di Parigi, è costretto a vietarne le successive rappresentazioni.
Proibito per quattro anni, “Il Tartufo” riesce ad essere rappresentato grazie ad un altro intervento del re, così come accadrà al “Don Giovanni o Il Convitato di pietra“, (1665) che, pur ispirandosi al leggendario personaggio spagnolo Don Giovanni Tenorio, è un’opera molto moderna in cui l’infame gentiluomo viene presentato come un uomo terribilmente affascinante, suscitando così ancora una volta scandalo negli ambienti ecclesiastici che considerano l’opera un’apologia del libertinismo.
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Deluso dall’insuccesso di un altro suo capolavoro, “Il Misantropo” (1666), apprezzato ovviamente solo da un pubblico colto, Moliére comincia a dedicarsi alla stesura di opere più leggere senza però mai abbandonare quella satira di costume di profonda umanità che caratterizza tutta la sua straordinaria produzione.
Tra le opere considerate “minori” è necessario ricordare “Anfitrione” (1668), “L’avaro” (1669), entrambe ispirate al modello del latino Plauto, “Il borghese gentiluomo” (1670), in cui affronta ancora una volta il tema dei nuovi ricchi e degli arrivisti nel ritratto di un commerciante arricchito che cerca in tutti i modi di apparire ciò che non è per poter così entrare a far parte dell’alta società, “Psyché” (1671), che anticipa già le caratteristiche fondamentali dell’Opera, “Le bricconate di Scapino” (1671), “Le donne saccenti” (1672), e infine “Il malato immaginario” (1673).
Il successo della sua ultima opera è enorme, ma alla quarta rappresentazione a Parigi, il 17 febbraio del 1673, Molière, sofferente da tempo di tubercolosi, viene colto da un malore. Grazie alla sua abilità di attore riesce a mascherare la sofferenza. Si spegnerà poche ore dopo a casa, tra le braccia di due suore che lo accompagnano a casa. Nemmeno l’unico prete che acconsente a porgergli l’estrema unzione riesce ad arrivare in tempo e, poiché, secondo la Chiesa, l’uomo è spirato senza confessione, gli viene negata la sepoltura. È solo grazie all’intervento del re che gli viene concessa la sepoltura religiosa, ma senza cerimonie in chiesa.
Di seguito alcuni pensieri tratti dalle sue opere. Un piccolo omaggio alla sovranità di un genio ineguagliabile.
Scrivere è come prostituirsi. Prima lo fai per amore, poi per pochi amici intimi, e poi per denaro.
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La vecchiaia accomoderà tutto e, come tutti sanno, vent’anni non è l’età per essere dei bacchettoni.
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Gli alberi che sono lenti a crescere portano i frutti migliori.
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E vi garantisco che uno stolto istruito è più stolto di uno ignorante.
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Naturalmente il cielo proibisce certi piaceri, ma uno trova la via del compromesso.
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Le persone di classe sanno tutto senza avere imparato niente.
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È una faccenda strana quella di far ridere delle persone oneste.
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I dubbi sono più crudeli della peggiore verità.
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Quando guardo a me stesso non sembra esserci motivo per essere meno che soddisfatto.
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Gli errori più brevi sono sempre i migliori.
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Onorare tutti gli uomini significa non onorarne nessuno.
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La grammatica, che può governare perfino i re.
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Abbiate pure cento belle qualità, la gente vi guarderà sempre dal lato più brutto.
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Dover fare un processo significa già essere maledetti su questa terra; e già solo il pensiero di ciò basta per farmi scappare in India.
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Se i furfanti sapessero quanto si guadagna ad essere onesti lo sarebbero per furfanteria.
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Non fa per me chi ama tutto il genere umano.
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